Tra il maggio e il giugno 1945 migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia furono uccisi dall’esercito del maresciallo Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati, dove morirono di stenti e malattie. La testimonianza di un sopravvissuto

La legge n.92 del 2004 riconosce il 10 febbraio come “Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”[1].
Tra il maggio e il giugno 1945 migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia furono uccisi dall’esercito del maresciallo Tito, gettati nelle «foibe» o deportati nei campi sloveni e croati, dove morirono di stenti e malattie: nell’ambito di una strategia mirata a colpire chiunque si opponesse all’annessione delle terre contese alla «nuova» Jugoslavia, caddero collaborazionisti e repubblichini, membri del CLN, partigiani, comunisti, e soprattutto tanti cittadini comuni la cui unica colpa fu quella di essere italiani.
Cos’è una foiba?
Una foiba è “un particolare tipo di dolina (…) in particolare, nella regione istriana, grande conca chiusa (derivante da doline fuse assieme) sul cui fondo si apre un inghiottitoio”[2]. Si tratta, dunque, di grandi pozzi verticali, lunghi anche fino a 250 metri, tipici della geografia giuliano-dalmata (in Istria se ne contano circa 1700[3]).
Il massacro delle foibe
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Italia firmò la resa incondizionata agli Alleati con la conseguente capitolazione del Regio esercito; soltanto due anni prima, nel 1941, l’Italia occupava, tra le alte zone, parte della Slovenia e parte della Dalmazia, diventando militarmente responsabile della area coincidente con la ex-Jugoslavia. A partire dal 1943, nel caos generale derivato dall’armistizio firmato dal generale Badoglio, le zone precedentemente occupate dalle forze dell’Asse (ad eccezione di Pola, Fiume e Trieste) restarono per lungo tempo terra nullius e ben presto i partigiani Jugoslavi, guidati da Josip Broz Tito, presero il controllo del territorio: il 13 settembre dello stesso anno il Consiglio di liberazione popolare dell’Istria proclamò l’annessione dell’Istria alla Croazia. Un primo eccidio degli italiani presenti nei territori irridenti dell’Istria si ebbe in questo momento: i partigiani titini, dopo sommari processi-farsa, condannarono a morte circa settecento italiani (non soltanto fascisti e militari, ma anche comuni connazionali che non ricoprivano né avevano mai ricoperto incarichi pubblici, probabilmente come ritorsione per gli anni di dominazione italiana del territorio), mentre altre fonti stimano un numero di vittime sensibilmente maggiore.
La seconda fase dell’ecidio si ebbe a conflitto terminato. Dopo il ritiro delle truppe tedesche dai territori giuliano-dalmati alla fine del 1944, nell’ambito di quella che è passata alla storia come ‘Corsa per Trieste’, l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia aveva il primario obiettivo di occupare la regione della Venezia-Giulia prima delle truppe anglosassoni, per poter sedere al tavolo dei negoziati per la delimitazione delle frontiere tra Italia e Jugoslavia con un potere negoziale corroborato dal controllo di fatto del territorio: nelle province di Trieste, Pola e Gorizia le forze partigiane ai comandi del Maresciallo Tito presero il potere, perpetrando, anche in questo caso, atroci violenze nei confronti della comunità italiana presente nei territori, cessate soltanto quando il 12 e il 20 giugno 1945 gli alleati si sostituirono ai titini nell’amministrazione dei territori rispettivamente di Gorizia e Trieste e poi di Pola. A Fiume, però, gli Alleati non arrivarono mai e le violenze continuarono almeno fino al 1947, anno della Conferenza di pace di Parigi che pose fine alla questione italo-jugoslava.
L’esodo giuliano-dalmata
Dramma direttamente collegato all’opera di epurazione attuata dalle forze comuniste di Tito contro la popolazione italiana e altrettanto tragico, è quello dell’esodo giuliano-dalmata, inteso come processo di abbandono graduale della regione dell’Istria e della Dalmazia da parte della comunità italiana, nel periodo che va dal 1946 al 1953. È la città di Zara a subire per prima l’abbandono, già a partire dal 1941 ma soprattutto nel 1944, con l’ingresso in città delle truppe jugoslave: si stima che l’esodo abbia riguardato circa 43mila italiani, mentre 36mila abbandoneranno Fiume, e 30mila Pola, flusso che si arresterà soltanto con la definitiva conclusione della questione italo-jugoslava. Le stime maggiormente attendibili indicherebbero un esodo complessivo di circa trecentomila persone. Le motivazioni che spinsero centinaia di migliaia di italiani a lasciare il territorio della ex-Jugoslavia sono diverse, ma “certamente le foibe istriane nell’autunno del 1943 gettano il seme della paura e continuano a rappresentare la mancanza di tutela cui la popolazione italiana si sente esposta. (…) A partire dal 1945 una persistente conflittualità con il potere popolare jugoslavo viene vissuta in ogni ambito dell’agire quotidiano, a causa delle confische (abitazioni, botteghe, officine, proprietà agricole, strumenti di produzione, tecnologie anche minime), delle collettivizzazioni, dei rifornimenti di beni di prima necessità, delle politiche culturali, scolastiche e religiose, della formazione dei giovani, del lavoro volontario e coatto”[4].
Come si moriva nelle foibe?
Più che descrivere noi le modalità con le quali l’eccidio delle foibe venne condotto mietendo migliaia di vittime (ancora oggi le stime sono incerte-con ogni probabilità si potrebbe parlare addirittura di decine di migliaia di morti), decidiamo di farlo riportando le parole di uno dei pochissimi testimoni oculari di quanto avvenne, per chiudere così il racconto di una pagina buia della nostra storia, ancora troppo poco conosciuta e che fa ancora tanto male.
“Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: “Facciamo presto, perché si parte subito”. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico fil di ferro, oltre quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo solo i pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole “Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo” pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”[5].
Note
[1] https://web.camera.it/parlam/leggi/04092l.htm
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/foiba/
[3] https://unipd-centrodirittiumani.it/it/news/10-febbraio-Giornata-del-Ricordo-delle-vittime-delle-foibe/1202
[4] https://www.fattiperlastoria.it/esodo-giuliano-dalmata/, di cui si consiglia la lettura per l’approfondimento del problema in esame
[5]https://perugia.istruzione.umbria.gov.it/news/news2005/consulta/foibe/doc/documento3.htm
Foto copertina: Egea Haffner, l’allora bambina con la valigia e il cartello “Esule giuliana”, foto simbolo dell’esodo giuliano-dalmata