Un fenomeno strettamente connesso alla visione estrattivista, ma ad oggi poco approfondito e noto, prende il nome di “razzismo ambientale”: un inquadramento generale
L’espressione fa riferimento, secondo l’accademico statunitense Robert Bullard[1], a tutte quelle politiche o decisioni – prevalentemente legate alla collocazione di siti industriali altamente tossici e inquinanti – volte a colpire e danneggiare, in modo differente, individui, gruppi o comunità, sulla base della razza o del colore della pelle. Ma non solo, il “razzismo ambientale” fa riferimento anche all’esclusione da tutte le pratiche partecipative, dai comitati decisionali, dalle commissioni e dagli organismi di regolamentazione, delle persone di colore. Contribuiscono a rafforzare questo tipo di condizione, istituzioni governative, legali ed economiche che, combinandosi con pratiche industriali “scellerate”, forniscono benefici soltanto ad alcuni – generalmente la popolazione bianca e più benestante, scaricando i costi dell’inquinamento sulle persone di colore, e accrescendo le sperequazioni sociali[2]. Il fenomeno – studiato per la prima volta negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80 – aveva originariamente a oggetto le comunità nere, vittime di danni alla salute protratti per generazioni e causati dell’esposizione a rifiuti tossici, aria e acqua inquinate. Le ricerche effettuate dal team di Bullard hanno dimostrato che l’elemento razziale influenza, tutt’oggi, la probabilità di essere esposti a rischi ambientali per la salute. Le persone nere, infatti, hanno maggiori probabilità (rispetto alle controparti bianche) di vivere vicino ad autostrade, impianti per il trattamento delle acque reflue, discariche, inceneritori e altre strutture con effetti nocivi[3].
Caso scuola in materia, è stata le sentenza “Bean v. Southerwestern Waste” del 1979, intentata per evitare la costruzione di una discarica municipale a Houston, in Texas. Dai dati raccolti emerse che nell’arco temporale 1930 – 1978 5 discariche di proprietà della città su 5, erano situate in comunità prevalentemente nere; 6 degli 8 inceneritori di proprietà della città, erano situati in quartieri prevalentemente neri; 3 delle 4 discariche di proprietà privata, si trovavano in quartieri neri. Di fatto, anche se gli afroamericani rappresentavano soltanto il 25% della popolazione, l’82% dei rifiuti prodotti in quel periodo, veniva smaltito proprio nei loro quartieri[4]. Portata innanzi alla Corte Federale degli Stati Uniti, “Bean v. Southerwestern Waste”, diventerà la prima causa per razzismo ambientale a contestare questa forma di discriminazione utilizzando la legislazione sui diritti civili.
Al 1982 va, invece, fatta risalire la nascita del Movimento per la Giustizia Ambientale, sorto dopo le proteste nella contea rurale di Warren (North Carolina). Lì la comunità afroamericana di Afton, costituì la prima embrionale mobilitazione pubblica contro una situazione di razzismo ambientale a seguito della futura costruzione di un sito di smaltimento di policlorurato di difenile (PCB)[5] . Le proteste innescheranno – oltre che l’arresto di 500 persone – lo svolgimento di uno studio del General Accounting Office degli Stati Uniti, relativo all’ubicazione delle discariche di rifiuti pericolosi e la loro correlazione con lo status economico e razziale delle comunità vicine.
Parallelamente, la Commissione per la Giustizia Razziale della United Church of Christ produsse nel 1987 il primo studio volto ad analizzare la correlazione tra collocazione delle strutture di smaltimento, e caratteristiche demografiche. In questo modo si evidenziò una realtà molto preoccupante: «più della metà della popolazione degli Stati Uniti [vive] in aree di residenza locali limitrofe a uno o più siti tossici non protetti». Ma non solo, il rapporto fece notare che «su 5 afro o ispano – americani, 3 vivono in comunità limitrofe a siti tossici non protetti». Venne inoltre precisato che, la correlazione non è imputabile ad un nesso di casualità, quanto piuttosto a scelte economico – politiche, sistematiche e mirate. I rilevi fatti hanno provato che «rispetto ad altri fattori analizzati, la razza costituisce un fattore di gran lunga predominante nella collocazione degli impianti per lo smaltimento di rifiuti tossici commerciali. […] Le associazioni statistiche tra la razza e la collocazione di questi impianti, si sono dimostrate più consistenti delle altre associazioni testate. La probabilità che si tratti di un’associazione puramente casuale è meno di una su diecimila»[6].
Ad oggi il “razzismo ambientale” trascende i confini statunitensi, intrecciandosi talvolta con altri fenomeni come il “land grabbing” e la deforestazione. Rappresentano, in questo senso, casi di ingiustizia ambientale tutte quelle azioni volte a limitare e impedire la partecipazione politica attiva delle popolazioni afrodiscendenti e indigene (quilombolas, guaranì, mapuche ecc…) che popolano l’Amazzonia e la Patagonia latinoamericana.
Quali sono, dunque, i frutti del “razzismo ambientale? Situazioni altamente discriminatorie e dannose che coinvolgono il possibile utilizzo dei terreni inquinati; la disponibilità delle abitazioni limitrofe ai siti inquinanti le quali, a causa dell’esposizione diretta a sostanze nocive, sono oggetto di una consistente svalutazione economica; la disponibilità di servizi igienico-sanitari; un aumento evidente di casi di avvelenamento da piombo fra i bambini.
In questo quadro, la giustizia ambientale – a cui si sono ispirati molti movimenti ambientalisti e per i diritti civili sparsi in tutto il mondo – fa proprio a) il principio secondo cui tutti gli individui debbano essere tutelati dal degrado ambientale; b) un modello di prevenzione volto ad eliminare una potenziale minaccia prima che si verifichi un danno irreversibile (la logica è che le comunità colpite non debbano attendere l’identificazione della causa o della prova conclusiva, prima di intraprendere un’azione preventiva; c) sposta l’onere della prova su chi inquina e danneggia, discrimina o non da uguale protezione alle minoranze razziali ed etniche e alle persone con basso reddito. Pertanto, alla luce di questo ideale, l’auspicio dei movimenti coinvolge la promozione di azioni e interventi volti a riconoscere alle comunità insediate il diritto di controllare e avere piena contezza – in termini di accesso e distribuzione – delle risorse naturali presenti in loco; la ripartizione dei proventi e dei costi derivanti dallo sfruttamento; la compensazione economica per i danni e gli svantaggi ambientali derivanti dallo sfruttamento.
Tuttavia, l’elemento di maggiore sfida, nonché di riflessione utile a comprendere in profondità la percezione di chi è vittima di “razzismo ambientale”, lo possiamo rintracciare nelle parole di Bullard: «certe terre sono considerate sfruttabili, le persone che vi abitano sono considerate sacrificabili. […] L’inquinamento è visto soltanto come il sottoprodotto del passaggio al livello più elevato dell’economia. Fumo, inquinamento dell’aria, inquinamento dell’acqua…questo è l’odore del progresso. Quando si tratta di rifiuti, questi fluiranno [in] luoghi vicini a popolazioni che “hanno meno valore”, luoghi che sono “zone di sacrificio”, zone considerate sacrificabili quando si tratta di ambiente, popolazione e salute. Quando leggi e regolamenti sono costruiti con questa mentalità, finisci per assegnare un valore a quei luoghi, e in qualche modo è lì che vanno i rifiuti e le altre esternalità. […] È questo quello che accade quando enti governativi, leader politici ed economici, consentono che determinate aree siano percepite come compatibili con l’inquinamento»[7].
Note
[1] {Considerato il padre della giustizia ambientale, attraverso le ricerche confluite nel libro “Dumping in dixie” (1990) ha constatato che gli afroamericani residenti nel Sud degli Stati Uniti sopportano un onere maggiore per quanto riguarda l’esposizione a discariche, inceneritori, rifiuti pericolosi, fonderie di piombo e impianti petrolchimici. Emblematico è il caso degli scarichi industriali nelle acque fiumane del basso Mississippi. Un’area popolata per lo più da afroamericani, talmente contaminata da essere stata soprannominata “Cancer Alley”: 130 km di fiume e territori circostanti, tra New Orleans e Baton Rouge, inquinati da oltre 100 impianti, tra raffinerie e stabilimenti petrolchimici}.
[2] {Cfr. R. D. Bullard, Environmental Justice in the 21st Century: Race Still Matters, in Phylon (1960-) , Autumn – Winter, 2001, Vol. 49, No. 3/4 (Autumn – Winter, 2001), pp. 160 – 161. Consultabile al link: http://www.jstor.com/stable/3132626}.
[3] {Cfr. R. D. Bullard, The Threat of Environmental Racism, in Natural Resources & Environment , Winter 1993, Vol. 7, No. 3, Facility Siting (Winter 1993), p. 23. Consultabile al link: https://www.jstor.org/stable/40923229}.
[4] {Cfr. R. D. Bullard, Addressing evairomental racism, in Journal of International Affairs , Vol. 73, No. 1, CLIMATE DISRUPTION (Fall 2019/Winter 2020), pp. 237 – 238. Consultabile al link: https://www.jstor.org/stable/10.2307/26872794}.
[5] {Sostanze tossiche, persistenti e stratificanti, responsabili di una vasta gamma di effetti tossici cronici. Dannosi per il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale, hanno effetti negativi sui meccanismi di regolazione endocrina dell’organismo. Alcuni PCB producono effetti simili a quelli della diossina per questo motivo, sono detti anche simil-diossine}.
[6]{Cfr. Commission for Racial Justice United Church of Christ, “Toxic waste and race in The United States : a national report on the racial and socio-economics characteristics of Communities with Hazardous Waste Sites”, consultabile al link: https://www.nrc.gov/docs/ML1310/ML13109A339.pdf}.
[7] {Cfr. R. D. Bullard., Addressing environmental racism…cit., pp. 239 – 240}.
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