Da via Fani a via Caetani; questo secondo approfondimento sul caso Moro ripercorre i 55 giorni trascorsi dalla cattura del Presidente della Dc fino al ritrovamento del suo corpo nel centro di Roma. Tra misteri, depistaggi e falsi comunicati la vicenda del rapimento si infittisce di trame oscure dai risvolti internazionali.
A cura di Gianmarco Castaldi
La mattina del 16 marzo 1978 in via Mario Fani a Roma, intorno alle 09:00, un commando delle Brigate Rosse, composto da Prospero Gallinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Franco Bonisoli, rapì il Presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Nell’agguato furono uccisi i cinque uomini della scorta dell’onorevole democristiano: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Il Presidente si stava recando in Parlamento per il voto di fiducia nei confronti del nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti. Un esecutivo che avrebbe finalmente visto l’appoggio esterno, espresso con il voto favorevole, del Partito comunista italiano.
Una volta sequestrato, Moro venne trasportato all’interno di una cassa di legno chiusa nel retro di un furgone fino alla “prigione del popolo”, una piccola stanza ricavata all’interno di un appartamento sito in via Montalcini 8, nel quartiere Magliana di Roma.
La notizia giunse in Parlamento e per la prima volta dopo il 1947, anno della fuoriuscita delle sinistre dal governo del Paese, il Partito comunista votava la fiducia a un monocolore democristiano, costruito sulla base della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Nel frattempo, le organizzazioni sindacali indissero uno sciopero generale che mobilitò una enorme massa di persone.
Due giorni dopo il sequestro, le Brigate rosse annunciarono la paternità dell’azione violenta e comunicarono che Aldo Moro si trovava in un carcere del popolo.
Il 29 marzo, il gruppo armato fece recapitare tre lettere autografate da Moro al capo della segreteria politica nonché collaboratore universitario Nicola Rana, il quale si premurò di consegnarle alla moglie dell’onorevole, Eleonora Chiavarelli. Le tre missive erano dirette una a Rana, un’altra alla stessa signora Chiavarelli e un’ultima al Ministro dell’Interno Francesco Cossiga – amico fraterno e seguace politico fedele di Moro – , che gli venne consegnata la sera stessa del 29 marzo.
Caro Francesco,
mentre t’indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. […] Sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità […]. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere. […] Io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. […] Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. […] E non si dica che lo Stato perda la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. […] Queste sono le alterne vicende di una guerriglia […]. Che iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.
I più affettuosi saluti,
Aldo Moro[1]
Una prima reazione a questa lettera arrivò dalle file del partito. In sostanza, come sottolinea il politologo Giorgio Galli, «la Dc afferma che la lettera non è moralmente ascrivibile al suo presidente, linea che manterrà lungo il periodo del sequestro»[2]. L’atteggiamento democristiano si configurò su tale linea apparentemente per mantenere una certa distanza dalla esplicita richiesta di Moro a trattare con i terroristi nella lettera inviata al ministro Cossiga. Drogato, pazzo, torturato, instabile il Presidente appariva, dalle dichiarazioni di importanti personalità della Dc, come una persona ormai sotto il pieno controllo delle Br, che lo obbligavano a un richiamo allo Stato in direzione di una trattativa tra le parti. Analogo atteggiamento assunse il Partito comunista italiano, il quale fu categorico nel non trattare con i terroristi.
Un ulteriore invito giunse alla dirigenza del partito e in particolar modo al segretario Zaccagnini, fortemente voluto alla guida dall’ala morotea, in una lettera recapitata il 4 aprile, ma scritta intorno alla fine di marzo.
Caro Zaccagnini,
scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. […] Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costituire. […] Moralmente sei tu al mio posto. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. […] Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi. […] Se altri non hanno il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. […] Ed in verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi. […] Che Iddio v’illumini e lo faccia presto, com’è necessario.
Affettuosi saluti
Aldo Moro[3]
Il 15 aprile le Brigate rosse annunciarono che il processo ad Aldo Moro era ormai finito. L’imputato venne condannato alla pena di morte. Il giorno 18 dello stesso mese venne scovato un covo brigatista in via Gradoli a Roma. Nel mentre, giunse un comunicato dei terroristi, il numero sette, che annunciava l’esecuzione e che il cadavere dell’onorevole giaceva morto sul fondale del lago della Duchessa, tra il Lazio e l’Umbria. Il lago in realtà era un pantano con poca acqua e tanto ghiaccio e fango, in cui il corpo di Moro non fu trovato. Due giorni dopo, il 20 di aprile, un altro comunicato Br smentì l’autenticità del precedente, che fu dichiarato un falso. All’interno di questo nuovo comunicato numero sette, i terroristi aprirono uno spiraglio: «il rilascio del prigioniero […] può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti».
Da questo invito nacque quello che venne definito il “partito della trattativa”, composto da varie personalità, più o meno influenti del panorama italiano e internazionale.
Da citare vi fu sicuramente l’atteggiamento del papa Paolo VI, amico di Moro, il quale si spese in maniera enorme per il rilascio del Presidente. Altre associazioni umanitarie o gruppi della stessa sinistra extraparlamentare, come Lotta continua, si posizionarono sul fronte della trattativa. Le Br rincararono la dose annunciando, all’interno dell’ottavo comunicato, che al rilascio di Moro doveva corrispondere la messa in libertà di tredici terroristi rossi. I partiti rifiutarono.
Il momento più alto e importante per una possibile trattativa fu raggiunto quando in seguito alla sottoscrizione che la Dc fece produrre a cinquanta personalità vicine a Moro uno scritto in cui si dichiarò la non paternità delle lettere che il sequestrato produceva nella sua prigione. Il Presidente rispose con una nuova lettera, rivolta al quotidiano romano “Il Messaggero” – inserita da Galli nel suo testo sulla Democrazia Cristiana[4] – in cui in sostanza propone allo Stato uno scambio uno a uno, con un terrorista comunista rinchiuso in galera.
A schierarsi subito in linea con tale posizione fu il Psi di Bettino Craxi, il partito italiano che più di tutti auspicava ad una liberazione dell’ostaggio in seguito alla istituzione di una trattativa con le Br. A tal proposito, il Presidente della Dc scrisse una lettera al capo dei socialisti italiani, datata 3 maggio 1978.
Caro Craxi,
poiché ho colto, pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo Patito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. È da mettere in chiaro che non si tratta d’inviti rivolti agli altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici. […] Mi pare tutto un po’ assurdo, ma quel che conta non è spiegare, ma, se si può fare qualcosa, di farlo. Grazie infinite ed affettuosi saluti.
Tuo
Aldo Moro[5]
Sui punti espressi da Craxi e ribaditi da Moro nella lettera a lui rivolta, sia la Democrazia cristiana, e quindi il governo del Paese nella persona di Giulio Andreotti, sia le Brigate rosse espressero un netto rifiuto all’idea di scambiare il Presidente con un terrorista. La posizione dei brigatisti restò ferma su un possibile scambio di Moro con 13 tra brigatisti e appartenenti ai Nuclei Armati Proletari (NAP).
Il 5 maggio giunse il nono comunicato: «Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza cui l’onorevole Moro è stato condannato».
Le trattative continuarono ancora per pochi giorni, poi avvenne l’inevitabile.
Il pomeriggio del 9 maggio 1978, Valerio Morucci, che aveva fatto parte del commando che in via Fani aveva rapito Moro e ucciso gli uomini della scorta, telefonò a uno dei collaboratori del Presidente, il professor Franco Tritto per comunicargli il luogo in cui avrebbe trovato il cadavere. Dopo cinquantacinque giorni, il corpo dell’onorevole veniva rinvenuto nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata nel cuore della Capitale, in via Caetani, vicino alla sede del Partito comunista italiano, in via delle Botteghe Oscure, e della Democrazia cristiana in piazza del Gesù.
Leggi anche:
- Italia democrazia difficile: la cornice politico-sociale del caso Moro
- Il rapimento di Aldo Moro, una ferita aperta nella storia politica italiana
Note
[1]M. Gotor (a cura di), Aldo Moro – Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2018, pp. 7-8.
[2] G. Galli, Storia della Dc – 1943-1993: mezzo secolo di Democrazia cristiana, La scuola di Pitagora, Napoli 2022, p. 370.
[3] M. Gotor (a cura di), op. cit., pp. 13-14. Questa lettera di Moro rivolta a Zaccagnini e più largamente ad alcuni dei massimi esponenti della Dc venne consegnata al segretario del partito il 4 aprile 1978, nel corso del sequestro. Un’altra versione della stessa fu invece ritrovata nel 1990 insieme alle altre carte manoscritte che completarono il Memoriale di Moro. Nella seconda versione, il Presidente parlò di come il suo «sangue cadrà sul partito e sulle persone» e non di «inevitabili conseguenze».
[4] G. Galli, op. cit., p.372.
[5] M. Gotor (a cura di), op. cit., pp. 91-92.
Foto copertina: Lettere di Aldo Moro