La Russia dopo Putin. Dialogo con Yurii Colombo


Che Russia sarà dopo Putin? Ne parliamo con Yurii Colombo, giornalista e ricercatore esperto di Russia ed ex URSS, autore del libro “La Russia dopo Putin” (Castelvecchi, 2022).


Molti analisti, osservatori, giornalisti e decisori politici s’interrogano sul futuro della Russia e su quali potrebbero essere le conseguenze in caso di sconfitta di Mosca.
La discussione ruota intorno ad un dilemma: che Russia sarà dopo Putin? 
La domanda l’abbiamo girata a Yurii Colombo, giornalista e ricercatore esperto di Russia ed ex URSS, classe 1963. Laureato in scienze politiche a Milano e in Storia e letteratura russa a San Pietroburgo, ha collaborato con Il Manifesto, Ogzero.org, Il Fatto quotidiano, Left e Jacobin (Usa). Yurii Colombo è autore di numerosi libri La Sfida di Putin (Edizioni Il Manifesto, 2018) e Svoboda (Castelvecchi, 2018) e La Russia dopo Putin (Acquista qui).
Con “La Russia dopo Putin”, Colombo ripercorre l’ascesa del presidente Putin da ex agente del KGB nella Germania Orientale a, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, collaboratore di Anatoly Sobchak, sindaco di San Pietroburgo, la ex Leningrado, sua città natale, fino all’ascesa nel FSB e la presidenza della Federazione russa nel 1999 e soprattutto prova a dare lettura dell’ideologia putiniana e della sua evoluzione nel corso degli anni. 
Un libro che prova a fare chiarezza anche sugli aspetti economici della Russia di Putin. Colombo definisce il sistema economico russo come capitalismo di Stato e sottolinea la necessità di Mosca di ricorrere ad un pesante indebitamento per poter far fronte alle esigenze belliche. Toni Negri, che ne ha curato la prefazione, l’ha definito un “libro importante”, capace non di offrire soluzioni, ma è un’opera che propone piste da percorrere, attorno a problemi che la guerra ucraina ha drammaticamente imposto alla nostra attenzione.

Intervista a Yurii Colombo, autore di “La Russia dopo Putin”

Partiamo dal titolo, che Russia sarà dopo Putin?
«Sarà per forza qualcosa di inedito. Gli stessi uomini di punta del Cremlino riconoscono che è difficile immaginare un putinismo senza Putin. Egli ha rappresentato il punto di equilibrio di interessi economici, politici, militari difficilmente riproducibili. Ha 70 anni e ha un ruolo di pivot che dal punto di vista dello sforzo psico-fisico è  impressionante. Lui vorrebbe stare al potere fino al 2034 ma ciò è veramente possibile? E del resto ancora un delfino non si vede. Il dopo Putin è il grande enigma di tutti i “cremlinologi”. Possiamo ipotizzare 3 variabili: una soluzione “iraniana” con una chiusura a riccio della Russia e una progressiva ideologizzazione di un sistema iper-nazionalista e tardo-sovietico; una riforma “dall’alto” e pilotata del regime come avvenne ai tempi di Chruščëv ; un processo di democratizzazione che potrebbe essere come ai tempi della Perestrojka provenire sia dalle élite che dalla base contemporaneamente. Tempi e modalità ovviamente sono difficili ora da immaginare.»

Tra gli scenari da Lei ipotizzati c’è quello di una rivoluzione democratica che rovesci il regime di Putin. Ma una ipotetica futura Russia “democratica” sarà in grado di gestire le inevitabili forza centrifughe? O è possibile una “balcanizzazione” della Federazione Russa?
«La balcanizzazione è stata fatta baluginare molte volte. Si tratta di uno scenario “apocalittico”, al punto tale di essere temuto anche nelle cancellerie occidentali. Può essere una dinamica di lungo corso tenendo però a mente un paradosso: l’esercito russo dal 1825 in poi non ha avuto mai autonomia politica e per questo il centro gioca un ruolo così decisivo come ha sottolineato alcune volte Sergio Romano.
Il quale sottovaluta però le spinte sociali profonde che attraversano la storia russa: tre rivoluzioni concentrate tra il  1905 e il  1917 e una rivoluzione di  “velluto” come quella gorbacioviana allungatasi per sei anni tra il 1985 e il 1991. La Russia vive eternamente tra quetismo e rottura rivoluzionaria.

Una Federazione russa balcanizzata vorrebbe dire un arco di crisi lungo 17.100.000 km²…rischio calcolato o ipotesi irrealizzabile?
«Le dimensioni del paese fanno tremare le vene e i polsi ma dobbiamo tenere presente che le zone abitate sono quelle europee (in particolare a sud) e in Siberia, sulla linea della transiberiana. Il resto è deserto. I mutamenti politici, nella storia russa, iniziano e finiscono a Mosca e San Pietroburgo anche per questo.
La “provincia” ha sempre seguito il corso del “centro”. Se balcanizzazione ci sarà inizierà dal centro. Per esempio con San Pietroburgo che va ad agganciarsi al Nord Europa. Su quella base potremmo vedere la Cina entrare seriamente in gioco in Siberia.»

Perché Putin ha deciso di invadere l’Ucraina?
«I motivi sono molti. In Occidente ci si è concentrati sui motivi geopolitici, sulle mire neocoloniali del Cremlino o sulle rotte dei gasdotti e delle pipeline. Tutti questioni certamente importanti. Io ho provato, nel mio libro, a valutare altri aspetti ugualmente decisivi ovvero quelli interni. Partendo dalla crisi strutturale del progetto  putiniano. A 23 anni dall’arrivo al potere la Russia non ha raggiunto lo sviluppo di un paese medio europeo che Putin aveva pronosticato. L’innovazione e la diversificazione dell’economia dalla dipendenza degli idrocarburi è fallita.
La risposta è stata quindi l’espansionismo. Portare le contraddizioni interne all’esterno alimentando il nazionalismo già ben presente nella tradizione russa.»

C’è un fondo di verità nella propaganda del Cremlino?
«Io credo che il gruppo di Normandia (Germania e Francia in particolare) avrebbe potuto fare molto per realizzare gli Accordi di Minsk due ma l’Ucraina, gli Usa e le Repubbliche Popolari del Donbass hanno posto sempre delle condizioni che si sono rivelate insormontabili. In particolare credo che Zelensky una volta giunto al potere non abbia mantenuto la promessa per cui era stato eletto nel 2019: portare la pace in Ucraina a ogni costo. Anche a costo di alcuni sacrifici territoriali. Come aveva fatto la Finlandia per esempio nel 1939.»

In Ucraina che guerra si sta combattendo?
«Non sono esperto di questioni militari, non mi atteggio a tuttologo. Osservo la dinamica politica di fondo. Putin ha tentato la guerra-lampo ma in subordine non aveva un piano b. Se lo è inventato con la ritirata verso il sud est. La sconfitta politica è stata evidente, i successi militari molto limitati. Dall’altra parte l’Ucraina è rimasta in piedi da una parte per i massicci aiuti occidentali ma anche per la compattezza e il sacrificio del suo popolo che era qualcosa di non scontato. Questo popolo dopo tanti sacrifici accetterà un compromesso che perlomeno preveda la perdita della Crimea? O anche del Donbass? Le tensioni  interne sarebbero credo fortissime, in tal caso. Maggiori di quelle che si ebbero in Irlanda con l’unificazione senza le sei contee del nord. Lì si aprì una dolorosa guerra civile e la formazione dell’IRA moderna, della guerriglia che durò decenni. Sono questioni che credo Zelensky ma anche gli alleati occidentali abbiano ben presente.»

È corretto affermare che l’Europa come soggetto geopolitico esce a pezzi da questa guerra?
«L’Europa è rimasta evidentemente schiacciata. Prima o poi dovrà fare i conti con chi ha remato contro come l’Ungheria e dovrà capire come riformulare il progetto dell’Unione. Perché nell’ex Urss non bussa alla porta solo l’Ucraina. Io sono di formazione marxista e quindi tengo bene a mente la premonizione di Lenin secondo cui “l’Europa unita” sarà socialista o non sarà. Il progetto europeo è in bilico non solo per ragioni “geopolitiche” ma anche perché le diseguaglianze aumentano e alcune libertà vengono compresse anche qui da noi. Insomma siamo sempre meno un modello a cui acriticamente fare riferimento.»

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Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud…prossimi tasselli di un effetto domino capace di travolgere molte delle ex-repubbliche sovietiche?
«Io guarderei anche alla Georgia, all’Armenia e a ciò che si muove in Asia Centrale. Questi paesi sono tutto meno che stabili e sono percorsi da tensioni interne. In Centro Asia il paese più ricco è il  Kazakhistan dove le tensioni sociali sono fortissime e dove esiste una importante minoranza etnica russa. Gli ultimi trent’anni, in generale possono essere letti anche come il prosieguo del crollo dell’Urss in slow motion in tutta l’area.»

Alcuni analisti non escludono a priori il ricordo all’arma nucleare da parte di Mosca. Crede possibile questa opzione?
«Tendo ad escludere questa ipotesi perché non avrebbe vincitori. Però dobbiamo riconoscere che la storia non procede in modo del tutto razionale, se no non avremmo avuto il nazismo nel paese più avanzato dell’Europa del XX secolo.
E anche il caso, l’errore umano possono giocare la loro parte. Insomma un disarmo controllato non solo sposterebbe risorse dai “cannoni al burro” ma ridurrebbe i rischi di guerra atomica. Purtroppo però per ora vediamo crescere intorno a noi dopo il 24 febbraio, un militarismo sfrenato.»

Come finirà questa guerra?
«Credo che nessuno lo sappia e chi dice di saperlo non fa parte della categoria degli analisti ma dei ciarlatani. Credo che o in Russia inizierà un processo di democratizzazione e di fuoriuscita dall’attuale sistema “statalcapitalista” oppure le tensioni che riproduce costantemente ai suoi confini, saranno ancora più esplosive di quelle attuali. C’è bisogno di dialogo con la Russia: non con la cricca del Cremlino ma con la sua società civile prima di tutto. Qualunque sia l’esito immediato della guerra.»

L’eventuale sconfitta della Russia quali ripercussioni potrebbe avere
«Io non prevedo un tracollo militare. Non ci fu neppure con la  guerra russo-giapponese che aprì la strada alla rivoluzione del  1905. Tuttavia prima o poi potrebbe emergere dentro la società russa la coscienza che questa avventura in Ucraina non porterà né più benessere né più sicurezza per la Russia. E allora penso che l’Europa più sensibile e intelligente dovrà fare la sua parte. A questo fine si deve preparare già da ora.»


Foto copertina: La Russia dopo Putin. Dialogo con Yurii Colombo