L’allargamento dell’Unione Europea, la via per Bruxelles


La guerra di aggressione contro l’Ucraina sembra aver messo nuovamente in moto il dibattito sull’allargamento dell’Unione Europea. Il 23 giugno scorso, infatti, il Consiglio ha riconosciuto lo status di candidato a Ucraina e Moldavia, i paesi tra i più esposti alla crisi bellica. Se è vero che questa scelta è essenzialmente un atto politico, che ambisce a dimostrare una volta in più il sostegno dei 27 alla lotta dell’Ucraina, è anche vero che ciò ha irritato tutti quei paesi che da moltissimi anni si trovano nel limbo della candidatura. Questo articolo intende essere introduttivo rispetto ad una serie di contributi che si concentreranno nei prossimi mesi sull’allargamento dell’UE e in particolare sullo stato delle negoziazioni degli altri candidati.


I trattati delle Comunità europee erano stati pensati come aperti a future adesioni, caratteristica mantenuta in piedi anche a Maastricht (1992) e ad Amsterdam (1997) dove la clausola di accesso era stata riformulata e rivista. Il trattato di Lisbona aveva sostanzialmente confermato le disposizioni precedenti, introducendo però la possibilità di recesso, attuata per la prima volta nell’ambito della Brexit.
L’allargamento delle frontiere dell’Unione Europea è avvenuto per fasi successive a partire dagli anni ’70. Gli ampliamenti maggiori sono avvenuti dopo la fine della Guerra Fredda e la caduta del muro di Berlino, sicuramente non senza difficoltà. A seguito dell’accesso di Austria, Finlandia e Svezia nel 1995, anche otto paesi dell’ex blocco comunista hanno presentato domanda di adesione[1]. Si è trattato di un’operazione delicata sia per la condizione economica e politica di partenza degli otto candidati, sia per la necessità, resasi inevitabile, di intervenire sul funzionamento delle istituzioni comunitarie. L’Europa orientale si era da poco liberata dalla presenza dell’Armata Rossa e aveva svolto una delicata transizione verso il sistema democratico e all’economia di mercato, dubbi quindi erano stati sollevati sulla reale capacità di questi paesi di far fronte agli obblighi derivanti dalla membership. Da parte delle istituzioni comunitarie, invece, il problema era di dover realizzare delle modifiche al processo decisionale in modo tale da non danneggiare la loro capacità di agire. Da questa necessità ha origine il Trattato di Nizza, entrato in vigore nel 2003, che ha cercato di semplificare e di efficientare i processi decisionali: si è modificata la composizione della commissione, nonché ripensata la ponderazione dei voti in Consiglio, cercando allo stesso modo di ampliare i casi di maggioranza qualificata (in luogo dell’unanimità), intervenendo, infine, sulla cooperazione rafforzata. L’intervento è stato limitato e sicuramente non risolutivo, ma che ha avuto il merito di intervenire in modo sufficiente al fine di permette all’UE di funzionare con ventotto Membri.

Ad oggi, la procedura di adesione è disciplinata all’interno del Trattato sull’Unione Europea (TUE) all’articolo 49, il quale prevede che ogni stato europeo che rispetti e si impegni a promuovere i valori previsti all’interno dell’articolo 2[2], quali libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto, possa avanzare la richiesta di diventare parte dell’UE. Il fattore geografico, tuttavia non deve essere inteso solo dal punto di vista meramente fisico (il continente europeo sic et simpliciter), bensì, in senso più ampio, il paese aspirante deve risultare omogeneo rispetto agli altri membri per storia, cultura e tutti quegli elementi che vanno a formare l’identità europea.
La domanda di adesione viene valutata dal Consiglio Europeo che si pronuncia all’unanimità, sentita Commissione e Parlamento Europeo, che delibera a maggioranza, tenendo conto dei criteri di ammissibilità stabiliti dal Consiglio.
Durante il Consiglio Europeo di Copenaghen del 1993, sono stati individuati dei criteri il cui rispetto è ritenuto essenziale al fine di aderire all’UE e che afferiscono alla sfera politica, economica e giuridica. Ogni stato che ambisca a diventare membro deve avere delle istituzioni stabili in grado di garantire democrazia, Stato di diritto nonché il rispetto di diritti umani e tutela delle minoranze; questo si deve accompagnare all’esistenza di un’economia di mercato funzionante, in grado cioè di affrontare la pressione dovuta alla concorrenza con le altre economie degli Stati membri; infine, lo stato che desidera aderire deve essere in grado di assumere tutti i diritti e gli obblighi che vincolano gli Stati membri (acquis).
La valutazione da parte delle Istituzioni europee deve anche tenere conto della capacità dell’UE di assorbire nuovi membri.

L’apertura dei veri e propri negoziati non è automatica, in quanto necessita nuovamente dell’accordo di tutti gli stati membri che, tramite un voto unanime in Consiglio, approvano un quadro per i negoziati elaborato dalla Commissione. Questi avvengono nella modalità della conferenza intergovernativa e normalmente non sono rapidi, anche perché devono procedere su ogni settore (35 capitoli) e sono volti a far sì che lo stato candidato recepisca la normativa europea e adatti il proprio ordinamento. I trentacinque capitoli negoziali sono raggruppati in macroaree e il passaggio al capitolo successivo non avviene fintantoché il precedente non è concluso. Terminata la fase negoziale viene elaborato un trattato all’interno del quale sono definiti i termini di adesione. L’accordo viene poi approvato non soltanto dalle istituzioni europee, ma anche dagli Stati membri che sono chiamati a ratificarlo secondo le proprie norme interne.

Le prospettive di allargamento dell’Unione Europea

Prima del 23 giugno 2022 i candidati ufficiali erano cinque: Turchia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Albania, che hanno ottenuto lo status in un periodo di tempo che va dal 1999 (Turchia) al 2014 (Albania). L’UE, almeno a parole, sin dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003, desidera giungere alla piena integrazione dei Balcani occidentali. Processo considerato necessario per favorire la stabilizzazione anche al fine di esorcizzare quelle tensioni etniche e politiche sopite, ma mai risolte che caratterizzano l’area. Se quindi l’associazione all’UE, o la sua prospettiva, potrebbe essere un sistema utile per permettere la sistemazione di quelle dispute bilaterali ormai decennali, è chiaro che vi sia una resistenza all’accettare paesi che hanno dossier aperti che potrebbero sfociare in conflitti. Bisogna sottolineare come, nei confronti di questi paesi, la politica di Bruxelles si sia mossa molto spesso a singhiozzo sviluppando un’inevitabile frustrazione, sia nei governi, sia nelle pubbliche opinioni. Anche in questo caso, quindi, l’Unione quindi risente della propria incapacità di elaborare una politica efficace anche quando si parla di dossier prettamente comunitari come quello dell’adesione di nuovi membri.

Ad oggi siamo di fronte ad una situazione di stallo nei negoziati che coinvolgono la Turchia, quelli di Serbia e Montenegro procedono lentamente e per quanto riguarda Macedonia del Nord e Albania vi è stato uno sblocco, sofferto, poche settimane fa, ma che, in prospettiva, non sembra avere grandi possibilità di successo anche a causa del perdurante scontro tra la prima e la Bulgaria. 

Una piena integrazione all’interno dell’UE si rende sempre più necessaria anche in virtù degli ultimi sviluppi che hanno portato al riaccendersi di focolai di crisi, ad esempio la contrapposizione tra Pristina e Belgrado e nella perdurante crisi vissuta dalla Bosnia Erzegovina. Le politiche di sostegno economico e finanziario a questi paesi non possono considerarsi più sufficienti soprattutto dopo vent’anni di promesse di integrazione costantemente disattese. Il rischio rimane sempre quello di regalare un’area fondamentale per gli interessi europei a delle potenze ostili.


Note

[1] Gli otto paesi ex comunisti (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) hanno ottenuto lo status di membro dell’UE nel 2004 assieme ai due paesi mediterranei di Cipro e Malta.
[2] Art. 2 TUE “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.


Foto copertina: La guerra di aggressione contro l’Ucraina sembra aver messo nuovamente in moto il dibattito sull’allargamento dell’Unione Europea