Le debolezze del diritto internazionale


La separazione dei poteri. È possibile in ambito internazionale?


A cura di Federica Nugnes

Ci sono dei limiti intrinseci del diritto internazionale che ostacolano una chiara separazione tra potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, attuabile invece nel contesto dell’ordinamento interno. L’assenza di una netta separazione dei poteri, difatti, non consente il corretto espletamento delle funzioni del diritto internazionale, per questo per ogni ambito si è tentato di individuare le problematiche e le relative soluzioni.
Il diritto internazionale è definito come quel complesso di norme e principi che regolano i rapporti tra gli Stati e disciplinano aspetti commerciali, economici e sociali della vita della comunità internazionale. Tuttavia, sebbene gli Stati mantengano la propria indipendenza all’interno della comunità internazionale e le norme di diritto internazionale perseguano valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli, esse rappresentano il limite più importante alla sovranità dello Stato e la loro affermazione non ha fatto altro che contribuire all’erosione del cosiddetto dominio riservato, ossia quella sfera di competenze delle quali il diritto internazionale si disinteressa poiché di responsabilità dello Stato.
In altre parole, la “domestic jurisdiction” degli Stati si è ristretta con il tempo poiché i settori tradizionalmente riservati alla competenza esclusiva dello Stato sono oggi disciplinati da norme internazionali[1]. Vi sono quindi dei limiti intrinseci nel diritto internazionale, che vengono in rilievo soprattutto al momento di una possibile violazione dello stesso da parte di uno o più Stati.
Il fine ultimo del diritto internazionale è la collaborazione e l’integrazione mondiale nel rispetto della legalità internazionale, obiettivo che la comunità internazionale tenta di raggiungere attraverso numerose iniziative quali progetti di pace, conferenze internazionali, summit e vertici globali. Ciò nonostante, ancora molte sono le lacune da colmare per garantire il raggiungimento di questo obiettivo su scala globale. Se si pensa all’ordinamento interno, ad esempio, quest’ultimo sarà strutturato in modo da garantire a ciascun organo che lo compone degli scopi da perseguire e gli strumenti necessari per il raggiungimento di quegli obiettivi: per ogni ordinamento interno ci sarà quindi un potere legislativo cui è attribuita la facoltà di emanare leggi, un potere giudiziario che giudica le possibili violazioni normative e un potere esecutivo che svolge invece un’attività concreta a tutela delle leggi nazionali. Al contrario, la comunità internazionale è in sé un concetto astratto, dunque è sprovvista di potere legislativo, esecutivo o giudiziario e più in generale di di un governo centralizzato, pertanto si configura come società di coordinazione: sono gli Stati – in quanto soggetti di diritto internazionale e attori principali nella comunità internazionale – ad essere dotati di sovranità, la quale è espressa attraverso la giurisdizione che si declina in jurisdiction to prescribe, to enforce e to judicate. In altre parole, il diritto internazionale presenta peculiarità rispetto al diritto statuale tali da renderlo un ordinamento sui generis: non si può trascurare, ad esempio, che il diritto internazionale è prodotto dagli stessi Stati a cui poi è indirizzato; che in esso non vi sia un’autorità sovraordinata capace di fare applicare le regole e punire efficacemente i trasgressori essendo – come anticipato sopra – una comunità di Stati sovrani posti in una posizione paritaria; e che, altresì, in esso non esista un sistema giurisdizionale coercitivo e punitivo efficace come invece accade nell’ambito di un ordinamento statuale[2].
Sul piano del potere legislativo, ad esempio, non vi è un’autorità internazionale competente a creare nuove norme in accordo con gli Stati. Anche se la Carta delle Nazioni Unite attribuisce all’Assemblea Generale la facoltà di discutere e fare raccomandazioni su argomenti relativi alla pace e alla sicurezza internazionale, essa non è comunque dotata di potere legislativo e le sue decisioni non sono vincolanti per gli Stati membri. Gli Stati, infatti, creano nuove norme per sé stessi sulla base della negoziazione dei trattati e delle convenzioni internazionali che avvengono secondo il loro interesse personale; inoltre, secondo il principio della volontarietà, essi non sono obbligati ad accettare una nuova norma internazionale a meno che non ne accolgano la validità. In altre parole, il diritto internazionale è costituito da norme che si formano attraverso accordi o comportamenti ripetuti nel tempo da parte della generalità dei soggetti internazionali, che possono essere considerate esistenti quando i membri della comunità internazionale le riconoscono in vigore e si conformano ad asse. Quanto appena detto ha portato molti giuristi a dubitare dell’esistenza stessa di una giurisdizione internazionale, tuttavia l’assenza di un potere legislativo internazionale potrebbe anche essere un incentivo per gli Stati a non creare leggi che non rientrino nei loro interessi e che quindi sicuramente sarebbero state violate.
In secondo luogo, relativamente all’ambito giudiziario, anche in questo caso è possibile riscontrare alcuni limiti all’interno della comunità internazionale. Se nei vari ordinamenti nazionali, infatti, chi commette un illecito è obbligato a presentarsi dinanzi ad un giudice che dovrà deliberare su quel caso, all’interno del diritto internazionale (fatta eccezione per alcuni casi, ad esempio se vi sono controversie sull’applicazione, interpretazione o violazione di un trattato) la condizione per l’esercizio della funzione contenziosa da parte della Corte Internazionale di Giustizia risiede invece nel consenso delle parti coinvolte della giurisdizione della Corte. Ancora una volta, dunque, il principio di volontarietà prevale sull’obbligatorietà del diritto internazionale. Così stando le cose, la Corte di Giustizia delle Nazioni Unite potrebbe sembrare un organo limitato nelle sue funzioni, tuttavia, esiste un metodo di accettazione preventiva della giurisdizione della Corte che consiste nella clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria – art.36 par.2 dello Statuto della Corte – che se invocata da uno Stato vincola quest’ultimo alla giurisdizione della Corte. Sebbene il sistema della clausola opzionale costituisca il meccanismo più avanzato di conferimento di competenza alla Corte Internazionale di Giustizia, questo strumento non fa venire meno il fondamento volontario della giurisdizione della Corte[3]; allo stesso tempo però, l’altra faccia della medaglia è una maggiore indipendenza degli Stati da un’autorità giudiziaria sovranazionale, requisito essenziale alla base della creazione della stessa comunità internazionale.
Come anticipato, il diritto internazionale presenta alcune carenze anche in relazione al potere esecutivo. Il metodo di applicazione della legge internazionale, infatti, è più debole rispetto a quello della legge nazionale a causa dell’assenza di un governo centrale con autorità politiche annesse e di forze di polizia internazionali. Ai sensi dell’art.24, la Carta delle Nazioni Unite riconosce il Consiglio di sicurezza come organo preposto in materia di applicazione del diritto internazionale, il quale è infatti competente – conformemente a quanto previsto dall’art.39 della Carta – ad accertare l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione e, conseguentemente, competente a fare raccomandazioni o decidere quali misure debbano essere prese per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale in conformità agli artt. 41 e 42 della Carta. In particolare, l’art.41 riguarda misure coercitive non implicanti l’uso della forza o sanzioni applicate nei confronti di uno Stato che abbia minacciato la pace, mentre l’art.42 autorizza il Consiglio di Sicurezza a intraprendere ogni azione necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali in caso di attacchi armati già sferrati oppure in casi di carattere umanitario, com’è avvenuto a seguito del genocidio in Ruanda nel 1994[4]. In altre parole, lo scopo dell’art.42 è accentrare il potere esecutivo nelle mani del Consiglio al fine di garantire obiettività e imparzialità dell’azione stessa, ma soprattutto al fine di sottrarre l’iniziativa militare – ritenuta contraria al diritto internazionale – dal controllo dello Stato per motivi che non siano previsti dall’art.51, facente invece riferimento all’uso della forza da parte di uno Stato giustificato dalla legittima difesa. Anche per queste ragioni il Consiglio di Sicurezza ha creato nel 1956 – in occasione della crisi di Suez – i cosiddetti “caschi blu”: soldati delle forze internazionali di peacekeeping delle Nazioni Unite volti a controllare e ripristinare la normalità politica e civile nel territorio in cui operano. Essi sono finanziati dagli Stati membri, ma non sono privi di aspetti contrastanti: infatti, sebbene all’interno della Carta ONU vi siano regole precise che riguardano la responsabilità personale del peacekeeper o dello Stato di appartenenza delle forze in caso di azioni ultra vires, tuttavia durante le operazioni di peacekeeping poste in essere dal Consiglio di Sicurezza non sono mancati episodi di violenza e abusi perpetrati a danno delle popolazioni locali. Già nel 1992, ad esempio, il Segretario Generale Boutros Boutros-Ghali presentò il rapporto[5] “An Agenda for Peace” contenente suggerimenti e raccomandazioni sulle modalità per rafforzare e rendere più efficiente le capacità delle Nazioni Unite di diplomazia preventiva, di pacificazione e di mantenimento della pace. Tuttavia, il rapporto non venne mai approvato né dall’Assemblea Generale né dal Consiglio di Sicurezza e furono soprattutto le riserve dei membri permanenti del Consiglio ad intralciare il progetto[6].
Un ulteriore passo avanti verso la definizione di un approccio integrato e completo del peacekeeping si ebbe nel 1999, quando il Segretario Generale Kofi Annan chiese ad una Commissione di esperti di analizzare il sistema delle Nazioni Unite in relazione ai temi della pace e della sicurezza e di formulare delle raccomandazioni per rendere più efficaci le operazioni di mantenimento della pace.

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Il Rapporto[7] del Comitato sulle Operazioni di Pace delle Nazioni Unite, noto come Rapporto Brahimi dal nome del presidente del Comitato, venne diffuso nell’agosto del 2000 e riguardava alcuni pareri in merito alle condizioni necessarie per il successo delle missioni di peacekeeping, in particolare: tali interventi dovevano essere parte di una strategia complessiva per contribuire alla risoluzione di un conflitto, dovevano comprendente sforzi politici, economici e di sviluppo e dovevano rispettare i diritti umani e umanitari, infine, tutti i membri del Consiglio di Sicurezza avrebbero dovuto trovare un accordo sul risultato dell’operazione e sui mezzi di finanziamento. Ciò apre la strada al problema più significativo vigente nell’ambito del potere esecutivo: la struttura del Consiglio di Sicurezza e la procedura di voto in seno al Consiglio, che non permettono il corretto svolgimento in termini democratici del suo ruolo di gestore del potere esecutivo. Infatti, mentre la comunità internazionale è una società di coordinamento in cui i suoi membri si considerano eguali in diritto e non subordinati ad alcun potere superiore, la struttura del Consiglio di Sicurezza prevede invece la presenza di un Consiglio permanente composto da cinque Stati membri – Regno Unito, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti – titolari del diritto di veto, potere che permette loro di bloccare le decisioni in seno al Consiglio attraverso il voto. Invero, le questioni di carattere sostanziale di cui si occupa il Consiglio – che corrispondono al lavoro più importante svolto da questo organo – oltre alla maggioranza devono essere prive anche di qualsiasi veto da parte di uno dei Paesi membri; è per questo che molte operazioni proposte in seno al Consiglio – si pensi alla recente questione ucraina o al rapporto sopra citato “An Agenda for Peace” – non vengono poi poste in essere. In altre parole, l’abuso di potere da parte dei Membri permanenti contribuisce indirettamente alla mancanza di efficacia e talvolta alla mancata applicazione del diritto internazionale.

Conclusioni

In conclusione, ogni limite ora esposto rappresenta un elemento da investigare ulteriormente: in ambito legislativo, ad esempio, si sottolinea la necessità di migliorare la procedura attuale di creazione delle norme internazionali; per l’ambito giudiziario, invece, è fondamentale un potenziamento della giurisdizione della Corte di Giustizia in termini di competenza obbligatoria ai sensi dell’art.36 par.2 dello Statuto; infine, per ciò che concerne il potere esecutivo, un elemento da migliorare è senza dubbio la procedura di voto che riguarda i cinque Stati membri precedentemente citati. Da ultimo, è comunque importante sottolineare che non può esistere un’istituzione o un organismo che possa emanare leggi per gli Stati sovrani e non esiste nemmeno un tribunale che possa far rispettare la sua decisione vincolando così gli Stati[8].


Note

[1] B. Conforti, M. Iovane, Diritto internazionale, XII edizione, “Manuali per l’Università”, Editoriale Scientifica, 2021, cit. p. 217.
[2] R. Fiore, L’obbligatorietà del diritto internazionale: elaborazione di una teoria della “volontà arbitraria”, in GIURETA Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. XIII, 2015, cit. p. 340.
[3] M. I. Papa, Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La dichiarazione italiana di accettazione della competenza obbligatoria della Corte internazionale di giustizia: profili problematici di diritto internazionale e costituzionale, luglio 2015.
[4] Si pensi, tra le altre, alla Risoluzione n.929 del 22 giugno 1994 con cui il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, un’operazione umanitaria multinazionale caratterizzata da forze multinazionali a guida francese nel Ruanda sudoccidentale.
[5] Boutros, Boutros-Ghali, UN. Secretary-General. An Agenda for Peace : preventive diplomacy, peacemaking and peace-keeping : report of the Secretary-General pursuant to the statement adopted by the Summit Meeting of the Security Council on 31 January 1992, UN Department of Public Information, 1992.
[6] C. Meneguzzi Rostagni, Politica di potenza e cooperazione, Ed. Wolter Kluwer, Milano 2020, cit. p. 378.
[7] Report of the Panel on United Nations Peace Operations, A/55/505-S/2000/809, United Nations, New York, 21 agosto 2000.
[8] Sentenza Queen c. Ken del 1876.


Foto copertina:Un incontro al Consiglio dei diritti umani, luglio 2016, a Ginevra, Svizzera. © Foto ONU/Jean-Marc Ferré