Libano – Ritorno “Al futuro”


A distanza di un anno dalle sue dimissioni, Saad Hariri ritorna ad essere il presidente del consiglio libanese. Le piazze in rivolta gli sono ancora ostili e la crisi che lo circonda è senza precedenti, aggravata dall’esplosione del 4 agosto e dalle tensioni al confine con Israele. Il dialogo tra i due paesi è una questione coinvolta nei progetti diplomatici USA, che spingono per la normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e i paesi della regione.


 

Cartina Libano. Fonte: Treccani

Dopo quasi un anno dalle sue dimissioni, Saad Hariri ritorna alla guida del governo libanese. Una manciata di voti gli hanno permesso di ottenere la maggioranza tra i parlamentari e rientrare come primo ministro, sotto l’egida del presidente Michel Aoun – che dal 2016 non ha mai lasciato il proprio posto.
A completare il ritorno alla formazione pre-thawra, la rivolta antigovernativa iniziata il 17 ottobre 2019, c’è Nabih Berri, lo storico presidente del parlamento in carica dal 1990.[1]

Con la promessa di un cambiamento di rotta nel governo, il leader di Hareket al-Mustaqbal (Movimento “Il Futuro”) tenta l’impresa fallita dai due premier che si sono susseguiti nell’ultimo anno. Né Hassan Diab né Mustafa Adib hanno retto il colpo devastante dell’esplosione del 4 agosto, il primo a seguito delle responsabilità del governo nello stoccaggio delle presunte sostanze che hanno causato l’esplosione, il secondo crollato sotto la pressione e la difficoltà di creare un nuovo governo che potesse gestire i fondi internazionali e tentare una ristrutturazione del paese.[2]
In un Libano spesso etichettato come campo da gioco di potenze internazionali, a poco sono servite le raccomandazioni di Emmanuel Macron, la presenza diplomatica statunitense e le influenze iraniane: nessuna forza riesce a imporsi in modo determinante sulle altre e ad infrangere l’onda della rivolta che ancora infiamma le strade e invoca – a sorti alterne – un cambio radicale nel sistema libanese.
L’abolizione del sistema confessionale richiesta a gran voce dalle piazze libanesi è proprio quello che si riafferma con la designazione di Hariri. La tripartizione del potere politico tra le principali confessioni religiose è incarnata dalla triade Aoun, Hariri, Berri, rispettivamente cristiano maronita, musulmano sunnita e musulmano sciita. Tale suddivisione è il risultato dell’accordo di Ta’if, il fragile accordo di pace tra le fazioni della guerra civile incominciata nel 1975, che garantiva una rappresentanza politica di tipo confessionale.
Tuttavia, il “fazionalismo” e le barriere politico-identitarie non sono mai stati effettivamente superati – se non con alleanze interessate – dando vita ad un sistema feudale corrotto e clientelare.[3]

Il riscatto di Hariri, che più volte si era dichiarato “pronto a tornare”, non sembra essere una soluzione alla crisi libanese.
Per quanto i suoi fedelissimi festeggino il suo ritorno in varie zone del paese, nell’élite politica non sembra godere di un appoggio incondizionato; basta considerare che Hezbollah, tra gli attori fondamentali della politica libanese, pur non opponendosi alla sua designazione, non si è comunque mostrato favorevole.
In un paese allo stremo, dilaniato tra il recente disastro e l’impasse politico-economica, si aggiunge il contesto regionale come ulteriore fattore di preoccupazione.
Oltre gli effetti quasi decennali della crisi dei rifugiati siriani, si aggiungono le dispute territoriali con Israele al confine meridionale.
La comunità internazionale ha infatti puntato i riflettori sulla striscia marittima contesa tra i due vicini, formalmente in stato di guerra dal 1948. Condotti al tavolo dei negoziati da mediatori statunitensi, Israele e Libano si sono incontrati per poche ore a Naqoura, nel sud del Libano, già quartier generale della missione di interposizione UNIFIL che, per conto delle Nazioni Unite, tenta di impedire escalation militari al confine.
Tuttavia, le trattative si sono concluse con nessuna decisione programmatica, lasciando trasparire la funzionalità politica di questo evento, che si inserisce nella campagna di diplomazia che gli Stati Uniti hanno condotto nella regione attraverso Israele.
La normalizzazione dei rapporti con Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan, sembra infatti una mossa strategica che l’amministrazione Trump rivendica come successo personale. Se lo scalpore che ha seguito gli accordi di Abramo non comporta un cambio decisivo negli assetti del Medio Oriente – considerata la relativa importanza di Bahrain e UAE – il contesto libanese può essere considerato un atto di mera propaganda.
Il contrasto tra Libano e Israele è molto più profondo e sfaccettato rispetto agli altri stati con cui è stata avviata la normalizzazione dei rapporti. Israele ha invaso il Libano due volte, nel 1982 (rimanendo sul territorio effettivamente fino al 2000) e nel 2006, a seguito di provocazioni e offensive su piccola scala di Hezbollah. In entrambi i casi, il partito militante sciita è riuscito a tenere testa alle forze israeliane e a garantirsi un posto di rilievo nella politica e società libanese. Israele – dall’invidiabile curriculum di confini e diritti violati[4] – occupa tutt’oggi i territori delle alture del Golan, tra Siria e Libano e i territori delle Fattorie Shebaa, territorio reclamato dal Libano.
Il confine terrestre, all’apparenza calmo e pattugliato dai militari della missione ONU, in realtà è spesso frutto di contenziosi e tensioni di varia natura – le più ricorrenti – tunnel scavati da Hezbollah per aggirare il lungo muro costruito al confine da Israele, oppure l’abbattimento di droni israeliani da parte di contadini o militanti libanesi.[5]
In mare la partita tra i due rivali è altrettanto accesa, specialmente per quanto riguarda l’accesso a settori esplorabili per l’estrazione di gas, iniziata da Israele nelle sue acque territoriali.
Per una controversia che risale al 2011, la stessa porzione di mare – estesa per circa 860 km2 – è contesa dai due paesi, entrambi interessati all’esplorazione dei fondali. Nella speranza di riprendersi dalla crisi economica ed energetica, il governo libanese ha disposto l’esplorazione dei fondali di un settore a nord-est di Beirut. Iniziate a sette anni dai permessi, le operazioni condotte dal consorzio formato principalmente da Total, Eni e Novatek, si limitano ad uno solo dei due settori nei quali è consentito lo scavo. La porzione di mare contesa è infatti parte del famigerato settore 9, che ancora resta impossibile da sfruttare.[6]
Se la speranza di ottenere un’autonomia energetica basata sul gas è effimera, lo è altrettanto quella di un accordo tra le due parti. L’incontro stesso, ampiamente osteggiato dall’opinione pubblica e da esponenti politici di entrambi i paesi, si basa su sulla necessità di risollevarsi dalla disastrosa esplosione del 4 agosto e sulle pressioni del governo USA sotto forma di sanzioni contro individui legati ad Hezbollah e Amal, i due principali partiti sciiti, tra cui l’ex ministro delle finanze Hasan Khalil. Inoltre, un eventuale accordo rischierebbe di essere un’arma a doppio taglio per il Libano, che riuscirebbe a sfruttare i giacimenti di gas al prezzo di accentuare le tensioni interne procedendo ad una normalizzazione con Israele, riconoscendone di fatto i confini.[7]


Note

[1] https://www.aljazeera.com/news/2020/10/22/lebanons-saad-hariri-secures-parliamentary-support-to-be-next-pm

[2] https://www.twai.it/journal/tnote-88/

[3] Traboulsi F. 2012, A History of Modern Lebanon, Pluto Press

[4] A tal proposito, basti considerare https://www.middleeastmonitor.com/20200726-lebanon-israel-violated-lebanese-air-space-29-times-in-48-hours/

[5] https://nena-news.it/muri-tunnel-e-tensione-al-confine-tra-libano-e-israele/

[6] https://www.iai.it/it/pubblicazioni/lebanese-crisis-and-mirage-natural-gas

[7] https://www.aljazeera.com/news/2020/10/12/analysis-the-politics-of-the-lebanon-israel-border-talks


Foto copertina: Michel Aoun, a destra, con Saad Hariri, a sinistra. Foto del 2016. REUTERS- Wall Street Journal 

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