L’Italia e il Medio Oriente durante la Guerra Fredda: la strategia dell’equidistanza


Data la sua particolare posizione geografica e la stretta cooperazione economica intessuta con alcuni Paesi arabi, l’Italia ha cercato di mantenere un ruolo di mediatore tra il continente europeo e il Medio Oriente e, attraverso questo ruolo, esercitare una forma di influenza in un’area geopolitica che rimane cruciale per la sicurezza e la stabilità del nostro Paese.


Dopo la seconda guerra mondiale, percependosi come “media potenza” e abbandonando l’avventurismo coloniale, l’Italia abbandonò una politica imperialista e promosse una politica di riconciliazione. Ciò è particolarmente evidente nella postura italiana assunta durante la crisi di Suez (1956) in cui , sotto la spinta di Amintore Fanfani, furono promossi tentativi di mediazione.   
La crisi di Suez influenzò le linee di politica estera italiana negli anni successivi.
Dagli anni Sessanta e, in particolare, con il secondo governo di Fanfani, l’area mediterranea e mediorientale divenne di particolare interesse. Lo stesso Fanfani, nel discorso programmatico che pronunciò alla Camera nel 1958, dichiarò che “i paesi arabi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale ed Israele hanno relazioni che ci proporremo di rendere sempre più attive quale contributo dell’Italia ad allargare le aree di prosperità e quindi a consolidare le sorti della libertà sulle rive mediterranee.”[1]
L’altra priorità era garantire la stabilità della regione e il motivo era la particolare posizione geografica italiana.

L’operato di Fanfani fu apprezzato a livello internazionale per il suo ruolo di interlocutore tra i paesi arabi e il blocco occidentale, ma fu ampiamente criticato a livello interno tanto che, dopo sette mesi, fu costretto a dimettersi.
Fanfani pensava che l’Italia dovesse assumere una posizione di equidistanza a scapito di una prettamente atlantista. Nel 1967, all’indomani della decisione di Nasser di bloccare lo stretto di Tiran per impedire ogni navigazione verso il porto israeliano di Eilat, Fanfani (allora ministro degli Esteri del terzo governo Moro) si rifiutò di aderire alla dichiarazione congiunta di Gran Bretagna e Stati Uniti. [2]
Equidistanza è l’approccio che ha guidato la politica estera italiana per circa quarant’anni, i cui massimi esponenti possono considerarsi Fanfani e Moro, e consisteva nel simpatizzare per i paesi arabi e, al tempo stesso, supportare lo stato di Israele nel suo diritto ad esistere. [3]

In realtà, la politica di Fanfani fu spesso accusata di essere antisraeliana, accusa avanzata, in primo luogo, dai socialisti di Pietro Nenni, i quali rivendicavano il dovere morale di salvaguardare lo Stato di Israele, dichiarando che “il diritto di un popolo all’esistenza dopo essere sopravvissuto al ferro e al fuoco dei pogrom antisemiti di mezza Europa non può essere messo in discussione.”[4]
In seguito, le posizioni assunte furono tali da non mettere in discussione l’alleanza con gli Stati Uniti e la posizione italiana all’interno dell’Alleanza atlantica.  

La guerra dello Yom Kippur e le ripercussioni in Italia

All’inizio degli anni Settanta, l’Italia aumentò il suo impegno politico nell’area mediorientale, spinto da alcuni eventi, come il colpo di Stato in Libia nel 1969. L’instabilità libica avrebbe potuto influire sugli altri Paesi del Nord Africa, con ripercussioni anche per l’Italia.
Fu Moro ad essere il protagonista di un maggior attivismo diplomatico, all’insegna di una strategia di doppia equidistanza poiché mirava ad assumere una posizione neutrale sia all’interno del conflitto israelo-palestinese sia all’interno del sistema bipolare, grazie al tentativo di delineare una politica estera autonoma, anche se non in conflitto con gli Stati Uniti.
La guerra dello Yom Kippur e la decisione dei Paesi dell’OPEC di attuare un embargo sul petrolio ebbero conseguenze negative su un’economia italiana già in crisi.
Il governo Rumor emanò il decreto legge 304, anche rinominato decreto austerity con cui si vietava ai mezzi privati di circolare la domenica e nei giorni festivi. Tra le altre misure per cercare di contenere i consumi, si dispose la chiusura anticipata di uffici pubblici, dei locali e dei negozi, la riduzione della tensione elettrica nelle ore notturne. [5]
Data la dipendenza dal petrolio arabo, la decisione dell’OPEC ebbe ripercussioni sull’economia di gran parte dei paesi europei.
Questo portò ad una revisione della politica europea che premeva per l’implementazione della risoluzione 242 del 1967 e all’istituzione del dialogo euro-arabo, su iniziativa francese.
Aldo Moro, all’epoca ministro degli esteri, continuò a supportare i diritti dei palestinesi e la necessità per l’Italia di mantenere una posizione intermedia, nonostante fosse importante, al contempo, preservare le relazioni con gli Stati Uniti e, di conseguenza, con il suo maggior alleato in Medio Oriente, Israele.
Moro fu, comunque, uno dei primi a parlare apertamente dei diritti del popolo palestinese, della adesione del governo italiano alle risoluzioni ONU n. 242 (1967) e n.338 (1973) e della loro applicazione integrale, senza riserve, con particolare riferimento alla prima risoluzione. Questa prevede per Israele il ritiro dai territori occupati, l’inammissibilità dell’acquisizione dei territori con l’uso della forza, il riconoscimento dei diritti del popolo palestinesi all’identità nazionale e il rispetto dell’integrità territoriale e l’indipendenza degli Stati della regione, compreso Israele.
Secondo Moro, il problema del popolo palestinese era un problema politico di cui bisognava tutelare i diritti nazionali e la possibilità di decidere del proprio destino. [6]
Tra le iniziative prese da Moro, si ricorda il “Lodo Moro”, un accordo segreto con l’OLP che permetteva di utilizzare il suolo italiano come base logistica per i gruppi militari palestinesi, con la garanzia che l’Italia non sarebbe stata il target di attacchi terroristici. Il lodo fu stipulato in seguito all’attentato all’aeroporto di Fiumicino del 17 dicembre 1973 compiuto da un commando di Settembre Nero. Nell’attacco morirono 32 persone, una delle stragi più gravi dopo quella di Bologna e, nonostante ciò, poco o nulla si sa, tanto da essere conosciuta come “la strage dimenticata”.
Nel 1974, il governo italiano continuò il suo attivismo nello scacchiere mediorientale: tra gennaio e febbraio, il ministro Moro visitò le principali città del Nord Africa e Medio Oriente in cerca di accordi commerciali che potessero alleggerire il peso dello shock petrolifero.
La politica filo-araba proseguì anche dopo l’uccisione di Aldo Moro, negli anni Ottanta, con il governo Craxi e il ministro Andreotti, per poi tramontare, in maniera quasi definitiva, alla fine della Guerra Fredda.


Note

[1] E. Martelli, Ventunesimo Secolo, Vol. 6, No. 14, A 50 anni dai trattati di Roma (Ottobre 2007), pp. 167-175, p. 168
[2] A. D’Ascanio, Lo scacchiere mediorientale nella politica estera italiana. Il Centrosinistra e la guerra dei sei giorni, Italia Contemporanea, marzo 2008, n. 250
[3] P. Soave & L.Monzali, Italy and the Middle East: Geopolitics, Dialogue and Power during the Cold War, Bloomsbury Publishing PLC, 2020
[4]  L’Italia, Israele e gli arabi, “Corriere della sera”, 27 maggio 1967.
[5] https://www.agi.it/politica/news/2022-03-11/crisi-energetica-1973-austerita-targhe-alterne-15944814/
[6] Testi e documenti sulla politica estera dell’Italia, 1974


Foto copertina: Andreotti durante una visita in Giordania (Foto ripresa da giulioandreotti.org)