Cosa è successo e cosa succede tra Armenia, Azerbaijan e l’autoproclamata Repubblica di Artsakh/ Nagorno-Karabakh e perché ci riguarda.
A cura di Matteo Montano
In contemporanea con il drammatico conflitto russo-ucraino, tra il 12 e il 14 settembre nuovi scontri hanno avuto luogo tra Armenia e Azerbaijan. L’esercito azero ha bombardato non solo la Repubblica di Artsakh o Nagorno-Karabakh, l’autoproclamata repubblica indipendente rivendicato dall’Azerbaigian, ma anche lo stesso territorio nazionale dell’Armenia. Il Nagorno-Karabakh è formalmente parte dello stato azero ma de facto indipendente e popolato in maggioranza da armeni. Questa regione è stata teatro del più grave e sanguinoso conflitto post-sovietico fino all’escalation avvenuta quest’anno in Ucraina: più di trentamila vittime, più di un milione di rifugiati. La storia di questo conflitto ha le sue radici nella stessa nascita dell’Unione Sovietica.
Guerra civile e pragmatismo
Con il collasso nel 1917 dell’Impero Russo e con la seguente sconfitta ottomana a seguito della Prima guerra mondiale, il caos politico degli anni della guerra civile russa rende la zona a sud del Caucaso una polveriera: una prima Federazione Transcaucasica ha vita breve (dal febbraio al maggio del ’18) e ben presto Georgia, Armenia e Azerbaijan dichiarano la propria indipendenza e un primo conflitto azero-armeno non tarda a manifestarsi. Un primo tentativo britannico di razionalizzare l’area fallisce e solo la ragione delle armi bolsceviche ristabilirà uno status quo. Sotto la nascente entità federativa nota come Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Nagorno-Karabakh, abitato prevalentemente da cristiani armeni, viene inglobato nella RSS Azera. Il motivo di questa scelta, secondo Robert Service, storico autore di una biografia di Stalin, è da considerare in seno alla strategia realista dell’allora commissario alle nazionalità: una concessione agli Azeri avrebbe reso i rapporti con gli ottomani, i quali erano un costante problema per la sicurezza dello stato sovietico, più distesi[1]. Con la formazione dell’oblast’ autonomo del Nagorno-Karabakh nella RSS Azera posto sotto il controllo di Mosca, la questione perde la sua carica esplosiva, malgrado gli Armeni abbiano continuato nel chiedere il trasferimento dell’oblast’ nella propria repubblica periodicamente[2]. La crisi terminale che affligge l’URSS porta al riemergere dei sentimenti nazionali e, la ben più morbida amministrazione Gorbačëv lascia spazio ai gruppi nazionali di agire. Dunque, con la successiva disgregazione dell’URSS nel 1991 e l’emergere di nuovi stati, secondo Ali Askerov, studioso del Caucaso meridionale, l’Azerbaijan si è appellato al principio dell’uti posseditis juris per preservare i confini esistenti all’interno dello stato sovietico[3]: viene così rifiutata da Baku la mozione di indipendenza presentata dal Nagorno-Karabakh. Lo scontro diviene inevitabile.
Da conflitto interno a guerra tra Stati
Secondo Thomas De Wall, storico dell’Università di New York, gli Armeni hanno armato gruppi all’interno del Nagorno-Karabakh sin dal 1986[4], ben tre anni prima della caduta del muro di Berlino e della celebre “catena umana” nelle tre repubbliche baltiche. La guerra tra Armenia e Azerbaijan nasce come conflitto civile in seno all’URSS nel 1988 e si arresta solo nel 1994 con un cessate il fuoco provvisorio tra due stati indipendenti. Il conflitto termina con una vittoria armena e dell’ autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh (non riconosciuta da nessun membro ONU, neanche dalla stessa Armenia). È doveroso notare che, se la autoproclamata repubblica ha una stragrande maggioranza di popolazione di etnia armena[5], mentre le zone circostanti, ovvero le province di Agdam, Fuzuli, Kelbajar, Zangilan, Lachin, Jabrail, and Gubadli, erano in maggior parte abitate da azeri. A seguito dell’occupazione militare armena, Human Rights Watch stima circa un milione di rifugiati come conseguenza dell’occupazione e trentamila vittime[6].
Una soluzione vera e propria dopo il 1994 non è stata mai trovata – si è parlato, quindi, fino al 2020, di «frozen conflict» – e si sono susseguiti tentativi fallimentari di riconciliazione da parte del Gruppo di Minsk, un gruppo di lavoro OSCE presieduto da Russia, Stati Uniti e Francia il quale ha organizzato 140 incontri e 23 summit e 4 risoluzioni dell’UNSC[7].
Cambio di rotta
Dal 27 settembre 2020, per quarantaquattro giorni, sono nuovamente le armi a parlare. Il principale game-changer del precario equilibrio è senza dubbio il ruolo della Turchia[8]. Sin dall’inizio del millennio con la salita al potere dell’AKP, il partito di Erdoğan, Ankara ha sviluppato una politica estera ben più proattiva del periodo precedente. Oltre l’area del Medio Oriente, un tempo territorio dell’Impero Ottomano, il naturale orizzonte di espansione turco è l’Asia Centrale, abitata prevalentemente da popolazioni turciche [9].
In particolare, per quanto riguarda l’Azerbaijan il supporto è andato ben oltre il livello propagandistico ed economico: sono stati forniti a Baku 1.500 mercenari siriani e, soprattutto, i famigerati droni Bayraktar[10]. Data la superiorità dell’esercito azero sul campo che riconquista la maggioranza dei territori occupati da Erevan giungendo sino alle porte di Stepanakert, capitale della autoproclamata repubblica, il 9 novembre viene siglato un cessate-il-fuoco sotto tutela russa, che vede il ritorno all’Azerbaijan delle province circostanti il Nagorno-Karabakh precedentemente occupate dall’Armenia, la formazione del corridoio di Lachin (tra Armenia e Repubblica del Nagorno-Karabakh) pattugliato da peace-keepers russi e la formazione di un collegamento logistico tra Azerbaijan e la sua exclave del Nakhvichan (confinante con la Turchia)[11].
A seguito del conflitto del 2020 sia il governo azero[12] che quello armeno[13] hanno stimato circa 3.500 morti per parte. Oltre il dato quantitativo, ad impressionare è la striscia di odio criminale che questo conflitto si trascina dietro. Human Rights Watch difatti riporta sia l’utilizzo di munizioni a grappolo da parte dell’esercito armeno[14] sia l’abuso e il maltrattamento dei prigionieri da parte dell’esercito azero durante la guerra del 2020. Durante gli scontri di questo autunno, varie fonti mostrano soldati azeri giustiziare sommariamente prigionieri armeni[15]. Il cessate-il-fuoco del 2020 è, come definito dall’Institute for the Study of War, funzionale al mantenimento di uno status quo favorevole al Cremlino. Con il protrarsi della guerra in Ucraina, tuttavia, la Turchia potrebbe approfittare della debolezza russa per aumentare la propria influenza nel Caucaso meridionale: snodo fondamentale per avvicinare Ankara sia al mondo turcofono in Asia Centrale sia nello specifico alle risorse azere.
Conclusione
La storia recente delle terre contese del Nagorno-Karabakh porta con sé molti interrogativi sul mondo post-guerra fredda. Il Nagorno-Karabakh, abitato in prevalenza da armeni, sin dalla nascita dell’Unione Sovietica è stato pedina di scambio per mantenere gli equilibri del confine sud-caucasico dello stato sovietico. Fino a quando il controllo di Mosca ha potuto esercitarsi con forza e decisione, la guerra non ha potuto manifestarsi. La guerra che è seguita è stata tremenda, sia dal lato quantitativo delle vittime sia per la crudezza e la violenza dello scontro. E proprio per questo sorge spontaneo, oggi, in concomitanza con un altro tremendo conflitto post-sovietico, domandarsi se la comunità internazionale, nel mediare la transizione delle ex repubbliche sovietiche a stati indipendenti, non abbia perso una chance nell’instaurare nell’area una stabilità duratura. Inoltre, la guerra del Nagorno-Karabakh ci pone di fronte ad un grande interrogativo: siamo disposti a stare dalla parte di un popolo che sente di appartenere ad altro rispetto allo stato in cui è collocato de iure, alla luce di un principio che consideriamo fondativo del mondo occidentale, quello di autodeterminazione, pur andando contro gli interessi nostri e dei nostri alleati?
Note
[1] R. Service, Stalin: A Biography, Harvard University Press, 2004, p. 234.
[2] A. Askerov, The Nagorno-Karabakh Conflict. The Beginning of the Soviet End, in A. Askerov, S. Brooks, L. Tchantouridze (eds.), Post-Soviet Conflicts: The Thirty Years Crisis, Lexington Books, 2020, p. 59.
[3] Ibidem.
[4] T. De Wall, Black Garden, New York University Press, 2003.
[5] L’ultimo censimento sovietico del 1989 riporta le seguenti percentuali per l’oblast: 76.92% armeni e 21.5% azeri.
[6] https://www.hrw.org/report/1994/12/01/seven-years-conflict-nagorno-karabakh
[7] A. Askerov, The Nagorno-Karabakh Conflict. The Beginning of the Soviet End, in A. Askerov, S. Brooks, L. Tchantouridze (eds.), Post-Soviet Conflicts: The Thirty Years Crisis, Lexington Books, 2020, p. 55.
[8] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/nagorno-karabakh-unimminente-crisi-umanitaria-27883
[9] B. Balci, T. Liles, Turkey’s Comeback to Central Asia, Insight Turkey, vol. 20, no. 4, 2018, pp. 11–26
[10] M. Clark, E. Yazici, Erdogan Seeks to Upend Kremlin-Backed Status Quo in Nagorno-Karabakh. Institute for the Study of War, 2020.
[11]https://web.archive.org/web/20201110011006/https://www.nytimes.com/2020/11/09/world/middleeast/armenia-settlement-nagorno-karabakh-azerbaijan.html
[12] https://mod.gov.az/en/news/list-of-the-servicemen-fallen-shehids-in-the-patriotic-war-38076.html
[13] https://www.armenpress.am/eng/news/1078446/
[14] https://www.hrw.org/news/2020/12/15/armenia-cluster-munitions-used-multiple-attacks-azerbaijan. È bene ricordare che molte nazioni non sono firmatari della Convezione ONU sulle bombe a grappolo, tra cui USA, Russia e Cina.
[15] https://www.hrw.org/news/2022/10/14/video-shows-azerbaijan-forces-executing-armenian-pows
Foto copertina: Aziz Karimov/Reuters