La guerra con l’Azerbaijan, i rapporti tesi con Ankara, la distrazione di Mosca, le prospettive statunitensi, il teorico supporto di Bruxelles e l’appoggio di Teheran: la complicata posizione geopolitica dell’Armenia.
A cura di Domenico Nocerino e Valentina Chabert
Il Caucaso è in subbuglio. La notte tra il 12 e il 13 settembre 2022, le forze di Baku sferrano un violento attacco nei villaggi armeni al confine. Non è più “solo” un conflitto che riguarda la Repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabakh, è qualcosa in più, è la violazione del confine di uno Stato sovrano riconosciuto dalla Comunità Internazionale, l’Armenia. A Yerevan è scattato l’allarme, la congiuntura geopolitica attuale non sorride al Governo di Pashinyan. La Russia, storica protettrice dell’Armenia, è impegnata in una guerra in Ucraina che potrebbe, in caso di sconfitta, determinarne la fine causa collasso interno, non può offrire altro che il supporto dei peace-keepers nel Nagorno-Karabakh.
Allo stesso tempo il CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) a trazione turcofila, considera l’Azerbaijan come un alleato e quindi disposta a chiudere un occhio a costo di mettere a rischio la tenuta (e l’utilità) dell’Organizzazione. Yerevan sa che deve contare sulle proprie forze, incassando il supporto iraniano (in chiave anti-Azerbaijan), quello indiano (per controbilanciare l’impegno del Pakistan al fianco di Baku), oltre a quello dell’UE in particolare della Francia, e del rinnovato interesse statunitense per la causa armena concretizzatosi prima con il riconoscimento nell’aprile del 2021 del Genocidio perpetrato dall’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916, e poi con la recente, seppure breve, visita di Nancy Pelosi lo scoro settembre accolta in una Yerevan vestita a festa per l’occasione con il Ponte della Vittoria bardato di bandiere stelle e strisce. Per comprendere al meglio la politica estera dell’Armenia, abbiamo intervistato il Viceministro degli esteri Paruyr Hovhannisyan.
Qual è la posizione dell’Armenia in materia di politica estera, alla luce degli ultimi attacchi dello scorso settembre?
“Attualmente sono 33 i prigionieri degli scontri di settembre, mentre oltre 20 sono in attesa di essere confermati. Fonti credibili provenienti da diplomatici e organizzazioni non governative ci hanno fornito le prove di gravi violazioni dei diritti umani, che testimoniano come la situazione sia in costante peggioramento per le popolazioni armene in Nagorno Karabakh. Anche con l’Azerbaijan le relazioni sono fortemente degradate: già nel mese di maggio 2021 Baku ha tentato di invadere il nostro Paese senza grandi reazioni. Ci fu un nuovo tentativo nel mese di novembre dello stesso anno, fino all’escalation dello scorso settembre. Nel frattempo sono stati aperti nuovi canali di dialogo che l’Armenia non ha mai rigettato: sono stati promossi incontri multilaterali dagli Stati Uniti, dalla Russia, dalla Georgia e dall’Unione Europea, in particolare con la mediazione del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel. Ciononostante, non è stato possibile impedire gli attacchi di settembre. L’unica spiegazione plausibile è la necessità di Aliyev di individuare costantemente un nemico: il Presidente azero è infatti salito al potere grazie al conflitto, pertanto deve mostrarsi come leader forte capace di salvare la nazione dai vicini avversari. Senza dubbio riteniamo che si sia sentito incoraggiato dall’assenza di una ferma condanna diplomatica e di messaggi politici contrari alle sue azioni, così come dalla paralizzazione delle principali organizzazioni internazionali – incluse le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa. Gli attacchi si sono infatti verificati sul territorio sovrano armeno e hanno raggiunto tre cittadine densamente popolate, che sono state prontamente evacuate. La condotta azera è particolarmente aggressiva e la negoziazione di un eventuale trattato di pace sta procedendo in maniera minacciosa: prendere o lasciare.”.
Quali sono gli sforzi diplomatici compiuti fino ad ora?
“Abbiamo visto un grande lavoro diplomatico da parte della Francia ed in particolare grazie al presidente Emmanuel Macron. Anche gli Stati Uniti – grandi assenti sotto l’amministrazione Trump – sono ora tornati più attivi nel Paese. Non nascondo che siamo molto delusi dalla reazione della Russia, ma al contempo abbiamo accolto positivamente la decisione dell’Unione Europea di dispiegare per la prima volta una missione di osservatori civili al confine. Anche l’OSCE ha la sua missione in Armenia, così come è presente l’Alto Commissario per i diritti umani. Il coinvolgimento dell’UNESCO risulta ancora complicato, poiché l’Azerbaijan rifiuta una delegazione che possa verificare lo status del patrimonio culturale in Artsakh, comprese le chiese medievali armene. Recentemente, l’Iran ha aperto il proprio Consolato generale in Armenia, ma il rischio di escalation è molto alto. Tuttavia, ci sono comunque sforzi verso una mediazione, e il Presidente russo Vladimir Putin ha invitato Pashinyan e Aliyev a Sochi per un incontro il prossimo 31 ottobre.”.
In passato, la Russia è stata un importante partner per l’Armenia. Tuttavia, come ha affermato, l’Armenia è molto delusa dal mancato intervento di Mosca e del CSTO dopo la tentata invasione di settembre. Crede che la Russia avrà ancora un ruolo primario nel garantire la sicurezza del Caucaso e in particolare dell’Armenia?
“Dai primi minuti dell’attacco ci siamo appellati al Consiglio di Sicurezza del CSTO e alla Russia. Il CSTO si è tuttavia limitato ad inviare una missione di esperti che hanno in seguito presentato un report. Da parte Russa, il tentativo di negoziare un cessate il fuoco non ha prodotto risultati di successo. Nel complesso, ci sono stati comunque tentativi di fermare la guerra. Non è un segreto che ci saremmo aspettati di più, e lo abbiamo ribadito in varie occasioni. Crediamo nella Russia come il nostro partner tradizionale, e siamo certi che in virtù dei legami tradizionali con la regione non potrà scomparire nel giro di poco tempo. Mosca è ancora molto presente, ed un chiaro esempio è il dispiegamento di 2000 peacekeepers russi in Nagorno Karabakh, gli unici a garantire l’esistenza fisica degli armeni in Artsakh. È presente inoltre una base russa vicino al confine con la Turchia, e il Cremlino risulta ancora il nostro partner economico principale, tanto in materia di scambi commerciali, quanto di investimenti. Abbiamo la speranza che l’incontro di Sochi possa essere un importante contributo alla stabilità della regione.”.
Considerando che gli ultimi attacchi hanno interessato l’Armenia e non la regione del Nagorno Karabakh, c’è la possibilità che l’Occidente (USA e UE) possano supportare l’Armenia non solo attraverso dichiarazioni ma anche militarmente? E a suo parere perché non vi sono state sanzioni come nel caso della Russia per l’invasione dell’Ucraina?
“L’approccio al momento è quello di “due pesi e due misure”. Il Karabakh è un territorio conteso, ma in quanto l’Armenia è uno Stato sovrano gli scontri di settembre non si sono configurati come scontri di frontiera, ma hanno interessato centri cittadini densamente popolati. Sfortunatamente, la voce più forte è stata quella dell’Iran, che in più occasioni (da ultimo l’apertura del Consolato) ha ribadito la “linea rossa” della non tolleranza di qualsiasi modifica all’integrità territoriale dell’Armenia. Francia e Stati Uniti sono intervenuti con chiare dichiarazioni, ma ancora non è abbastanza. La missione dell’Unione Europea ha natura civile e non militare, ma riteniamo che possa in qualche modo svolgere una funzione preventiva – sebbene non sia così forte come quella dell’OSCE. Ci auguriamo che possano esserci reazioni indipendentemente da quello che accade in altre aree del mondo, in quanto la gravità di un escalation in quest’area avrà conseguenze importanti anche per l’Occidente.”.
Alla luce delle elezioni del prossimo anno in Turchia, crede che nel caso di un’eventuale perdita di Erdoğan Aliyev possa cambiare la propria strategia in Armenia?
“Dipende molto da chi, eventualmente, lo sostituirà. Erdoğan al momento sta adottando una politica e una retorica molto nazionalista, che non aiuta la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia e nemmeno la stabilizzazione del Caucaso. Anzi, i toni sono molto più radicali ed aggressivi. Vi sono stati incontri tra Pashinyan ed Erdoğan a Praga, in cui è stata riaffermata la volontà di procedere alla normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Turchia. Tuttavia, il Presidente Turco ha ripetutamente affermato che aderirà a qualsiasi cosa solo nel caso in cui anche la controparte azera sia d’accordo. Abbiamo pertanto un vicino imprevedibile, e proprio per questo motivo è necessario il dialogo. Nel mese di giugno abbiamo concordato la possibilità che cittadini di Paesi terzi possano attraversare la frontiera dei nostri rispettivi Stati, ma l’accordo non è stato ancora implementato. Lo stesso vale per il traffico aereo, mentre è stata rigettata la proposta di consentire il passaggio ai cittadini dei villaggi vicini alla frontiera, così come a coloro che detengono un passaporto diplomatico.”.
Come è possibile avanzare nelle negoziazioni se il consenso di Baku è una precondizione per Ankara?
“I nostri tentativi vanno nella direzione del compimento di piccoli avanzamenti nel tempo. Il fatto che sebbene debbano esserci due parti a negoziare in realtà ve ne siano tre non aiuta i negoziati, e ad ogni modo è difficile ottenere risultati in breve tempo. Sono certo del fatto che inserire precondizioni non favorisca alcun avanzamento, ma da entrambe le parti traspare il messaggio di mantenere il dialogo e continuare gli sforzi per una normalizzazione.”.
Nell’ultimo anno, il CSTO ha mostrato i propri limiti. È possibile che l’organizzazione non sia più in grado di rispondere agli scenari presenti e alle sfide future?
“Il mancato intervento di settembre è la risposta a questa domanda. Recentemente, il Kirghizistan ha sospeso la propria partecipazione nella CSTO a causa degli scontri con il Tajikistan, il Kazakhstan è uno stretto alleato dell’Azerbaijan per via della cooperazione nel Caspio, ed entrambi i Paesi sono membri del Turkic Council, l’Organizzazione degli Stati Turchi. Si sono sollevate numerose voci che chiedevano di uscire immediatamente dall’Organizzazione, ma nella mia visione personale non è conveniente poiché non vi sono alternative di sicurezza. Cosa accadrà poi alle relazioni con questi Paesi? Diverranno più ostili? Inoltre, con il conflitto in Ucraina non vi è neppure la possibilità di comprare armi, poiché gli armamenti russi sono destinati alla guerra contro Kiev.”.
Con riferimento agli USA, come interpreta l’interesse per la regione? Secondo lei si tratta di un tentativo di riempire il vuoto lasciato dalla Russia impegnata in Ucraina?
“È possibile avere questa sensazione, ma è bene ricordare che l’assenza di Trump ha lasciato il dialogo in mano alla Russia e alla Turchia. Noi non dobbiamo spingere qualcuno verso o lontano da noi: ciò che desideriamo è un coinvolgimento internazionale basato sull’idea che non debba esserci un solo attore che riempie il vuoto lasciato dall’attore precedente. Gli USA sono importanti da questo punto di vista: quanto intenso sarà il loro coinvolgimento lo vedremo con il tempo. Per il momento, il rilascio di 77 prigionieri dopo gli scontri di settembre non sarebbe stato possibile senza lo sforzo degli Stati Uniti.”.
Il gap militare tra il vostro Paese e l’Azerbaijan è forse uno dei fattori principali dell’assenza di pace e della difficoltà di negoziare un trattato. In che modo state cercando di compensare la superiorità militare azera?
“La capacità militare azera proviene dal sostegno turco, ed è chiaro che non possiamo competervi. Il coinvolgimento di attori come il Pakistan è poi molto pericoloso, ma noi siamo in grado di utilizzare la diplomazia oltre ad aver avviato numerose attività per ricostituire la nostra capacità difensiva. Ritengo che questo conflitto non abbia una soluzione militare se si vuole costruire una pace duratura, e questo è il momento di farlo una volta per tutte per evitare di entrare in un circolo senza fine. Tuttavia, anche l’Armenia ha vinto la guerra in passato, e non è detto che possa vincerla nuovamente.”.
Il mantenimento dell’integrità territoriale armena in cambio della cristallizzazione della situazione in Nagorno Karabakh potrebbe essere una strada percorribile, anche se ciò significherebbe deludere la popolazione dell’Armenia?
“Rigettiamo sempre questo tipo di narrativa che ricalca quella dell’Azerbaijan, in cui viene presentata la questione come meramente territoriale. Si tratta della protezione dei diritti umani e della sicurezza degli armeni che vivono in Artsakh, e persino i principi di Madrid includono misure in riguardo al dispiegamento di peace-keepers e sullo status della popolazione. Solo i punti finali trattano la futura configurazione della regione, e ora ritengo che sia necessario fare lo stesso: prima di tutto, assicurare l’esistenza e la sicurezza del Karabakh. Ci sono stati episodi che hanno minacciato questi due ultimi aspetti: gli azeri hanno tagliato le forniture di gas agli armeni in Karabakh nei mesi invernali più rigidi, ci sono state sparatorie, minacce con altoparlanti e pressioni notturne perché abbandonassero la terra. Ma gli armeni vi sono molto attaccati, e non vi è stato un esodo di massa. Per questi motivi bisognerebbe innanzitutto riconoscere l’esistenza di un problema – cosa che non avviene da parte azera – e solo successivamente toccare la tematica della configurazione futura del Karabakh.”.
L’Ararat tornerà ad essere armeno un giorno?
“L’Ararat è per gli armeni ciò che il Vesuvio è per i napoletani. È difficile a dirsi: è un simbolo religioso per noi, ma non vi è nessun reclamo territoriale. Sono certo che possa essere armeno in molti modi: per esempio, se vi sarà un giorno una nuova riapertura dei confini con la Turchia, gli armeni potrebbero andare a visitarlo e si potrebbero organizzare pellegrinaggi. Non voglio parlare di situazioni irrealistiche, ma vi sono strade che meritano di essere percorse. Aprire il confine sarebbe una sfida per noi in termini di competizione di numerosi prodotti, ma non è normale avere i confini chiusi e non è corretto deprivare le persone dei loro diritti. Se si aprono i confini, l’Ararat potrà tornare ad essere armeno, e i cittadini avranno la possibilità di riconnettersi alla terra dei loro antenati almeno a livello psicologico.”.
Foto copertina: Ministero degli Affari esteri della Repubblica di Armenia