“Africa Bazaar, un banchetto per l’ingordigia del mondo” edito da Rosenberg&Sellier, ci aiuta a comprendere la complessità del continente africano tra le sue contraddizioni, le sue storie e le pressioni delle grandi potenze. Intervista con Angelo Ferrari coautore del libro.
“Africa Bazaar, un banchetto per l’ingordigia del mondo”, edizioni Rosenberg&Sellier, (Acquista qui) a cura di Angelo Ferrari e Raffaele Masto prova a dare una chiave di lettura diversa, analizzando la complessità del continente africano tra le sue contraddizioni, le sue storie e le pressioni delle grandi potenze. Il colonialismo, ha solo cambiato abito ma è sempre presente. È presente nelle miniere di metalli preziosi della Repubblica Democratica del Congo, nelle rotte dell’Oceano Indiano e in quelle del Mediterraneo. Russia, Cina, Turchia, Stati Uniti, Europa ogni attore sta giocando la propria partita e non intende perderla. Allo stesso tempo la pandemia da Covid, la crisi economica, l’arresto dei processi democratici di alternanza di potere, la povertà dilagante non fanno altro che accrescere gli adepti dei gruppi terroristici che proliferano in tutto il continente. Per provare a comprendere queste dinamiche abbiamo intervistato Angelo Ferrari, giornalista professionista, già corrispondente dell’Agi e autore, tra gli altri, di Mal d’Africa (2020) e La pandemia in Africa (2021).
Africa Bazaar parte da una domanda di fondo: il continente africano è un mercato o un serbatoio?
“L’intero continente è oggi terra di conquista per gli interessi globali. L’Africa è diventato un continente affollato, addirittura caotico nel quale sono in gioco gli interessi di ogni tipo: politici, economici, commerciali, anche ideologici e religiosi. Le vecchie potenze coloniali, in un qualche modo, resistono anche se hanno perso qualche posizione. Poi c’è la Cina, l’India, la Corea del Sud, il Giappone, l’Indonesia. Ma anche la Russia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Turchia. Per non parlare delle Monarchie del Golfo. Insomma, rispetto all’epoca coloniale, una bella confusione. Cosa attira tutte le potenze in Africa? E perché ciò avviene solo ora, all’alba del terzo millennio? La risposta a queste domande è che l’Africa si appresta, ancora una volta, a finanziare con le sue materie prime, il prossimo assetto geopolitico del pianeta. In sostanza l’Africa si prepara a essere, come già avvenuto in passato, un grande “serbatoio” di risorse invece di diventare un “mercato”, con una popolazione in possesso di un potere d’acquisto e una capacità di esportazione di prodotti, manufatti e non solo di materie prime. In sintesi: l’Africa è una riserva strategica alla quale attingere per finanziare lo sviluppo di altre aeree del pianeta. E sembra essere cambiato poco rispetto al passato. Prima ha finanziato le varie rivoluzioni industriali, ora sta finanziando la green economy. “Strappar tesori dalla viscere della terra era il loro unico desiderio, senza più fini morali di quanti ce ne siano nello scassinare un forziere”. Lo scriveva Joseph Conrad, nel suo Cuore di tenebra. Era il 1899. Africa e mondo ricco dovrebbero unirsi in un patto di mutuo soccorso. Valorizzando le potenzialità che entrambi hanno. Percorrendo una strada comune. È più che mai necessario un cambio di passo, di paradigma, altrimenti a vincere sarà la massima gattopardesca secondo cui “tutto cambia perché non cambi nulla”. E ciò va solo a vantaggio del mondo ricco. Ma nel lungo tempo perderanno entrambi.”.
L’Africa detiene il record dei presidenti più longevi al mondo che non disdegnano di mortificare la carta costituzionale quando si avvicina la scadenza del mandato, in altri casi il “trasferimento del potere” avviene di padre in figlio, e non di rado assistiamo a golpe militari per ristabilire l’ordine. Perché la democrazia in Africa fa fatica ad imporsi?
“È uno dei drammi del continente. L’età media degli abitanti dell’Africa, forse, è la più bassa al mondo e, di contro, ha i presidenti e i governanti più longevi al mondo. Governano per decenni. La dinastia Bongo, in Gabon, è sopravvissuta a tutta la Quinta Repubblica francese da De Gaulle e Macron. Il presidente del Congo Brazzaville governa il paese dal 1979. Paul Kagame è al potere in Rwanda dal 1994 e ha modificato la Costituzione del paese che gli permetterà di rimanere al potere fino al 2035. Il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, governa il paese dal 1986 e il presidente degli Stati Uniti d’America era Ronald Regan, Michail Gorbacev si cimentava con la perestroika. Sono solo alcuni esempi. Il tema vero, e il libro cerca di approfondirlo, è che la democrazia in Africa è un malato grave. E non è solo una questione di organizzazione democratica, per lo più imposta prima dai colonizzatori e poi dai nuovi modelli occidentali, che non tengono in considerazione la natura stessa dell’organizzazione societaria dei vari paesi africani. Ma ciò che è ancora più drammatico è che sono i presidenti stessi – un tempo paladini dell’indipendentismo post coloniale – che hanno dimenticato, hanno cancellato rapidamente, le loro radici storiche. Sembra siano diventati essi stessi predatori a scapito dei loro popoli. In sintesi: hanno tradito l’Africa.”.
Lo scorso aprile l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato la sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani in seguito all’invasione dell’Ucraina. Tra i 57 Paesi astenuti molti sono africani. Una decisione che non deve sorprendere più di tanto vista la presenza russa in Africa. Può farci una breve panoramica degli interessi di Mosca nel continente?
“La Russia sta spingendo sull’acceleratore per ritrovare la sua influenza nel continente africano e lo fa con le armi che possiede, cioè la diplomazia, la propaganda e la vendita di armi. Andando, anche, a ridare vita ad accordi con quei paesi che all’epoca della Guerra Fredda ruotavano nell’area sovietica. Mosca non ci sta all’isolamento messo in atto dall’occidente dopo l’invasione dell’Ucraina e cerca di trovare una “sponda” proprio in Africa, il continente che è rimasto pressoché neutrale nella condanna della guerra russa in Ucraina. Lo scontro con l’occidente in Africa non è mai stato sotto traccia. La Russia a differenza dell’Unione europea, della Cina e della Turchia, non ha strumenti di soft power, in particolare quelli economici, ma se li deve conquistare con gli strumenti che possiede. I mercenari della Compagnia Wagner, oltre a essere combattenti per conto di Mosca, rappresentano la modalità con la quale si manifesta l’influenza del Cremlino negli stati in cui operano, dove ha interessi. Ma sono anche dei “facilitatori” delle relazioni e dei rapporti tra stati, ritagliandosi uno spazio nell’economia locale, in particolare in quelle aree dove abbondano le materie prime. E, infine, il paradigma di Putin fa leva sul fatto che la Russia non è mai stata un paese colonizzatore. L’agenda per l’Africa l’ha definita lo stesso Putin descrivendola, nell’ultimo vertice Russia-Africa del 2019, come “positiva” che si contrappone ai “giochi geopolitici” degli altri, non interessata a depredare le ricchezze, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola che abbiamo sentito troppo spesso anche in altre epoche e che non evoca nulla di buono.”.
La morte del nostro Ambasciatore Attanasio ha fatto riaccendere per qualche giorno l’attenzione sulla Repubblica Democratica del Congo, un paese delle enormi ricchezze del sottosuolo ma di fatto tra i più poveri al mondo. Qui più che altrove la sensazione che il colonialismo ha solo cambiato abito ma è sempre presente…
“L’attenzione verso l’Africa si accende quando capita qualcosa che ci tocca da vicino. E, da questo punto di vista, l’informazione dovrebbe fare una profonda autocritica. L’Africa ci interessa poco, quasi nulla. Dopo la morte del nostro ambasciatore si è scatenato il putiferio, come è giusto che fosse, tutti si sono impegnati a spiegare il contesto dove l’omicidio è maturato, esperti, ma anche molti trasformatisi per l’occasione in esperti senza esserlo. E poi tutto è svanito nel nulla. Le popolazioni continuano a morire sotto i colpi delle formazioni armate – più di 100 – che investano il nord est della Repubblica democratica del Congo. Ma quei lutti non arrivano a noi. Non ci interessano, cinicamente verrebbe da dire che non sono morti nostri. La stessa cosa è capitata dopo l’uccisione della missionaria italiana in Mozambico. Ma voglio allargare lo sguardo. Nel 2050 un bambino su tredici nel mondo sarà nigeriano, un abitante su quattro sarà africano, mentre l’Europa subirà una decrescita demografica di 30 milioni rispetto al 2017. La pressione dell’Africa sul mondo ricco sarà enorme. I bambini e i giovani sotto i 18 anni nel 2030, nel continente africano, toccheranno i 750 milioni e nel 2050 i bambini raggiungeranno il miliardo. E noi continuiamo a disinteressarci dell’Africa o, meglio, ci interessiamo delle sue risorse, quelle che stanno sotto terra. Chi abita quei territori ci interessa poco. Non solo la politica nostrana, ma anche l’informazione dovrebbe avere il coraggio di cambiare paradigma.”.
Perché l’Africa, a più di 50anni dalla decolonizzazione, non riesce ancora ad essere padrona del proprio destino? Al di là delle “colpe” innegabili delle grandi potenze, non crede che le maggiori responsabilità siano però da attribuire proprio alle élite africane incapaci di far progredire i propri paesi?
“In parte ho risposto prima. Ma aggiungerei questo. Le società civili africane, spesso, sono molto vivaci ma, altrettanto spesso poco incisive. E il motivo si fonda sulla storia. Quattro secoli di schiavismo e due di colonialismo non si cancellano con soli sessant’anni di indipendenza. Quei secoli hanno lasciato il segno, e osservandoli nella prospettiva dei tempi storici ci si rende conto che sono ancora troppo vicini per non influenzare l’attualità. Sembra quasi che nel profondo per molti africani, ancora oggi, chi “vince” è bianco. Ecco, gli africani devono superare questo devastante complesso di inferiorità, ma hanno tutti i giorni sotto gli occhi gli effetti della potenza dei bianchi che vanno in Africa: sono quasi onnipotenti – o si sentono tali senza esserlo – hanno denaro a volontà, si possono permettere di “aiutare” gli africani con progetti che richiedono migliaia di dollari ed elargire stipendi incredibili a quanti lavorano per loro. Insomma, sono dei vincenti e vengono da paesi che hanno vinto. Tutto ciò alimenta quel complesso di inferiorità, oppure fa accumulare rabbia e risentimento, o infonde un desiderio incontrollabile di migrare, di provare a fare fortuna in quegli stessi paesi o, ancora, spinge i giovani verso le organizzazioni criminali e il terrorismo. Gli africani hanno bisogno di valorizzare sé stessi, di conoscere il valore dei loro territori e delle risorse che vi sono contenute o che possono produrre, ma soprattutto hanno bisogno di avere una prospettiva. I loro governati, in questo, non aiutano.”.
Parigi sembra non essere più presenza gradita in Africa Occidentale. Cosa resta della Françafrique?
“La Francia, negli ultimi due anni, ha perso un bel pezzo del suo impero coloniale e proprio a scapito della Russia. Mosca, dopo aver saldamente messo radici nella Repubblica Centrafricana, è riuscita a entrare in Mali e sta espandendo la sua influenza in Burkina Faso. La Francafrique sta scricchiolando un po’ dappertutto. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento anti-francese che aleggia su tutto il Sahel e che si allarga anche ad altri paesi dell’Africa occidentale. La Francia, nella sua area di influenza, ha trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi. Attori dello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato e quindi garantito meglio gli interessi di Parigi. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante. Sempre più stati sono disposti, nel difendere i propri interessi, anche ad “offendere” gli alleati storici. È chiaro che la Francia dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e in Africa occidentale se non vuole essere “sfrattata”. La posta in gioco per Parigi è fondamentale: evitare declassamenti strategici di fronte ai suoi avversari o concorrenti nel continente.”.
Quali sono le priorità italiane nel continente africano?
“L’impegno italiano in Africa sembra concentrarsi più che sulla cooperazione allo sviluppo, a quella militare di contrasto al terrorismo e a spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo in chiave anti immigrazione. Una strategia abbastanza miope. Sembra che la rocambolesca uscita dall’Afghanistan e l’immediata ripresa del potere da parte dei talebani, non sia servita a nulla. L’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia, negli ultimi tre anni, non ha fatto altro che decrescere arrivando a un misero 0,22%. Nel diciassettesimo rapporto Aidwatch pubblicato dalla Conferenza europea delle ong si legge: “Negli ultimi anni l’agenda di molti paesi su migrazione e sicurezza dell’Ue hanno deviato l’Aps dal suo scopo principale di ridurre le diseguaglianze applicando condizionalità sul tema migratorio”. La politica del governo italiano verso l’Africa, nelle aree strategiche evidenziate dall’esecutivo – Sahel e Corno d’Africa – è concentrata sulla riduzione delle partenze, attraverso l’aiuto militare al controllo del territorio e in chiave antiterrorismo. Ma è sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze? Molti dei paesi sui quali si concentra l’attenzione italiana non sono in grado di soddisfare i bisogni essenziali dei loro cittadini. Allora viene da chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo, non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo, cioè la creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi.”.
Da Boko Haram ad Al – Shabaab, dai terroristi nel Sahel all’Isis. L’Africa sembra essere la nuova culla del terrorismo mondiale. Perché?
“La contesa delle risorse africane e non solo è confermata anche dalla diffusa presenza di organizzazioni jihadiste sul territorio. Il Sahel è diventato ingovernabile da una dozzina d’anni. Il Burkina Faso è infestato da diverse formazioni armate che rendono la vita della popolazione non più degna di questo nome, con le forze armate incapaci di farvi fronte. Così accade anche in Mali. Le giunte militari che hanno preso il potere in queste due paesi si sono rivelate incapaci di fare fronte alla minaccia jihadista che si allarga sempre di più. Boko Haram, nel nord est della Nigeria – nonostante la scissione al suo interno – ha accresciuto la sua potenza di fuoco. Le formazioni jihadiste prendono piedi in Niger, in Ciad, in Benin, in Togo, cercando di spingersi sempre più a sud per avere uno sbocco sul mare e saldarsi con organizzazioni criminali internazionali, come le mafie italiane. Se si guarda all’Africa orientale le cose non vanno meglio. La Somalia, ma anche il Mozambico dove le formazioni jihadiste hanno reso impraticabile la parte settentrionale del paese dove sono stati scoperti immensi giacimenti di greggio e di gas naturale. Si potrebbero fare altri esempi come il nord-est della Repubblica democratica del Congo. In tutte queste aeree siamo di fronte all’impotenza degli stati e a quella dell’occidente. Tutte queste aeree hanno un tratto comune: l’instabilità cronica, la povertà devastante, la politica bulimica di denaro. La gente, i cittadini, rimangono sullo sfondo. Il jihadismo si nutre della povertà, si alimenta con i disagi, si fa forza grazie alla debolezza degli stati.”.
Foto copertina: Africa Bazaar, un banchetto per l’ingordigia del mondo