Gas e potere: geopolitica dell’energia dalla guerra fredda ad oggi.  


Dialoghi con l’autore Leonardo Bellodi Senior Advisor presso la Libyan Investment Authority e Secretary General del Marco Polo Council.


Con la guerra in Ucraina e, più o meno direttamente, l’acuirsi delle tensioni fra Russia e Occidente, le discussioni sulla ridefinizione dei nuovi equilibri internazionali all’indomani del conflitto passano necessariamente attraverso la questione energetica, più precisamente quella del gas. Di fatto, all’interno dello scontro che vedrà il ritorno o la definitiva espulsione di Mosca dal sistema delle potenze in Europa, l’emancipazione volontaria (o sotto pressione statunitense) dalla connessione russa non potrà eludere il problema della diversificazione, ovvero la sostituzione – più o meno graduale – del gas moscovita con forniture da altri Paesi. Come siamo giunti a questo punto è il tema centrale lungo il quale si sviluppa il volume di Leonardo Bellodi[1]: “Gas e potere. Geopolitica dell’energia dalla Guerra Fredda ad oggi”, (Luiss University Press, 2022), in cui l’autore – con la prefazione di Lucio Caracciolo – delinea le ragioni storiche, politiche ed economiche che, a partire dall’epoca dello scontro bipolare, hanno coinvolto l’Europa in numerose “guerre del gas” – fino alle ultime tragiche tensioni con la Russia di Putin. Fu con il secondo shock petrolifero e la rivoluzione iraniana, responsabile dell’aumento del prezzo del barile fino a 40 dollari, che l’Europa – in cerca di energia a prezzi ragionevoli e più resistenti ai contraccolpi della politica – volse lo sguardo ad est verso l’Unione Sovietica di Breznev, ritenuta potenzialmente stabile nonostante la competizione bipolare tra USA e URSS. Si inseriscono in questo contesto le visite a Mosca del cancelliere della Germania Ovest Helmut Schmidt e l’incontro con Breznev del Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing a Varsavia. Se Schmidt concluse l’accordo per la realizzazione di un gasdotto euro-siberiano di oltre 4800 km, dal canto suo il Presidente francese concordò l’adesione di Parigi al progetto, i cui termini negoziali furono successivamente discussi dall’allora compagnia di Stato francese Gaz de France e dalla controparte sovietica Soyuzgas. Ciò produsse, da entrambe le parti, ciò che gli analisti definirono una “win-win” solution: l’Europa si vedeva assicurati tanto la fornitura di energia a basso prezzo quanto l’accesso a nuovi mercati di sbocco; l’Unione Sovietica otteneva la tecnologia necessaria alla modernizzazione di infrastrutture cruciali e importanti entrate in dollari, impiegati per alleviare la crisi finanziaria che stava corrodendo il sistema economico sovietico. Ciò che si concretizzò con la costruzione del gasdotto (inaugurato nel 1984) fra Europa e Unione Sovietica – non senza tentativi di dissuasione da parte statunitense – fu “un matrimonio, ma più vincolante”, le cui controindicazioni geopolitiche sono emerse in tutto il loro vigore a partire dal 24 febbraio. A questo proposito, il volume di Leonardo Bellodi ha messo in luce in modo scrupoloso e particolarmente approfondito il ruolo geopolitico dell’Ucraina come terreno determinante per il transito del gas verso ovest, una delle partite ancora aperte per l’Europa nell’attuale contesto bellico. Come evidenzia Bellodi, l’impiego del fattore energetico come strumento di pressione (geo)politica non è del tutto una novità: lo ha dimostrato il sanzionamento di Kiev da parte del Cremlino con l’interruzione delle forniture e il conseguente aumento del prezzo del gas in seguito alla “rivoluzione arancione” del 2004, che ha segnato di fatto uno strappo politico da Mosca e la corsa dell’Ucraina verso la comunità euro-atlantica. Risulta quindi evidente come ogni equilibrata strategia di sicurezza energetica debba necessariamente fondarsi sulla diversificazione (tanto del mix energetico quanto dei fornitori, dei Paesi di transito e delle pipeline), fondamentale alla protezione della sovranità nazionale. Di questi temi e dell’importanza strategica delle infrastrutture energetiche abbiamo discusso con l’autore Leonardo Bellodi, Senior Advisor presso la Libyan Investment Authority e Secretary General del Marco Polo Council. Ha lavorato per le Nazioni Unite e ha ricoperto numerosi incarichi in Eni, da ultimo come Executive Vice-President Governmental Affairs.

L’estrazione del gas fu per molti anni una storia (quasi) esclusivamente americana, con lo sfruttamento dei primi gasdotti per volontà di J.D. Rockefeller solo a fine 800. Nel 1950, all’alba del conflitto bipolare, il 90% della domanda di gas globale veniva consumata negli Stati Uniti, e – sebbene gli immensi giacimenti di Mosca fossero già stati scoperti – il gas russo non ricopriva un ruolo primario nei piani di industrializzazione forzata dello stalinismo. Quali sono stati i fattori che hanno portato il controllo delle risorse energetiche e delle materie prime ad essere lo strumento principe della potenza russa? Come si è arrivati all’attuale relazione diretta fra prezzo di gas e petrolio e la potenziale instabilità del potere del Cremlino?
“Soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, era il petrolio la materia prima per eccellenza. La Russia ha occupato una posizione di primo piano tra i principali attori mondiali del gas, un mercato molto diverso da quello del petrolio: non è solo in mano ai paesi produttori, bensì anche ai grandi traders internazionali. Dunque, è un mercato molto “liquido”. Una petroliera cambia destinazione – geografica ma anche a livello di acquirenti – più volte. È poi un mercato piuttosto liquido perché non avremo mai un problema di shortage. Il mercato del gas è molto più “ingessato”: da un lato è in mano a pochi grandi produttori internazionali, dall’altro è caratterizzato da infrastrutture che sono un po’ come dei matrimoni. I gasdotti sono difficilmente rimpiazzabili e legano due Paesi “per sempre”; sono notoriamente anche più di un matrimonio, che spesso non è così eterno. É vero che c’è il mercato del GNL, tuttavia rispetto al mercato del gas trasportato attraverso gasdotti ha una quota molto minore. Il metodo principe e anche quello più conveniente per trasportare il gas è quello dei gasdotti. Per questa ragione non si può parlare di gas senza parlare di geopolitica, e di geopolitica senza parlare di gas, proprio perché legano più Paesi: non solo i produttori e i Paesi di destinazione, bensì anche quelli di transito. La Russia, quando si tratta di gasdotti, è molto legata all’Europa sin dagli anni ’60. Il prezzo di estrazione del gas russo era molto basso e lo è tuttora rispetto ad altri Paesi; noi abbiamo approfittato di questo vantaggio.”. 

Quale influenza ha avuto la tesi di dottorato di Vladimir Putin e i successivi scritti nella definizione del ruolo delle risorse naturali come pietra angolare su cui ricostruire la grandezza russa?
“Putin ha fatto un’operazione – dopo Eltsin – di concentrazione nelle mani del governo di quelle che erano delle società che erano state privatizzate a prezzi molto bassi. Ha cercato di riportare – direttamente o indirettamente – nell’alveo governativo tutte queste società, pertanto il potere e la leva contrattuale sono molto maggiori rispetto all’epoca di Eltsin. Putin ha voluto riportare indietro l’orologio ai tempi dell’Unione Sovietica e ha concentrato il potere nelle mani del governo.”.

Sebbene fino al lancio dell’“operazione speciale” di Putin Russia e Germania furono legate da profonde relazioni (più o meno conflittuali) in termini politici, economici ed energetici, il nostro Paese svolse un ruolo pionieristico nella creazione di una partnership energetica con Mosca. Quale fu la posizione dell’Italia in relazione al dossier energetico a partire dall’Eni di Enrico Mattei e, successivamente, nel quadro della normalizzazione dei rapporti tra Est e Ovest nel periodo di “détente”?
“Mattei stava cercando petrolio, invece ha trovato gas. Gas di cui pochi, negli anni 60, si giovavano: quella che era considerata la materia per eccellenza era il petrolio, e non il gas. L’Italia è stata uno dei primi Paesi ad “andare a gas”: in parte lo si era trovato nella Pianura Padana, e poi si è giunti ad avere un certo tipo di rapporti con l’Unione Sovietica. Rapporti che c’erano già ed erano molto intensi all’epoca dei grandi stabilimenti della FIAT, e proprio in quel solco delle relazioni che erano appunto cominciate con la FIAT si sono cominciati a costruire questi grandi gasdotti che portano il gas in Europa – e particolarmente in Germania e in Italia. Nel corso di questi anni, la Russia – eccezione fatta per il 2008 – si è sempre dimostrata un interlocutore piuttosto affidabile. In realtà, poi, ci siamo legati un po’ “mani e piedi”: questa situazione è anche colpa nostra. La Russia vendeva gas, e nessuno ha obbligato l’Italia a comprarlo. Perché siamo così dipendenti, anche se molto meno della Germania? Perché siamo così dipendenti dall’estero tout court? Lo siamo perché non abbiamo mai voluto costruire infrastrutture, perché non le vogliamo nel nostro giardino di casa. Non abbiamo voluto sfruttare – anche a causa della legge – il gas dell’Adriatico, abbiamo provato a costruire dei rigassificatori che avrebbero consentito di avere maggiore flessibilità – cioè di portare gas da altri Paesi che non fossero la Russia – ma non ci siamo riusciti. Non vogliamo sfruttare il petrolio che c’è in Basilicata: anzi, un grande player internazionale è andato via.  Shell è andata via dopo aver investito in rigassificatori quando vi è stato il cambiamento del Governo regionale, che ha revocato tutte le autorizzazioni. Questa situazione ce la siamo cercata, pur avendo le possibilità e non volendole sfruttare, pur essendo contrari ad ogni tipo di infrastruttura anche in questo momento storico in cui abbiamo una situazione di crisi (in cui normalmente un popolo si rende coeso). Ad esempio, per quando riguarda i due rigassificatori offshore in questo momento siamo contrari, e vi sono tutta una serie di moti popolari che non vogliono assolutamente che siano ormeggiati al largo delle coste. Anche in un momento di crisi internazionale siamo restii ad avere qualcosa che tutti hanno: il Giappone – a titolo esemplificativo – ha decine di liquefattori ed è notoriamente un Paese ad alto rischio sismico. Noi non li abbiamo mai voluti, e ci troviamo in una situazione in cui siamo molto dipendenti dall’estero.”.

Alla luce dell’ultima crisi del gas iniziata nell’inverno 2021-2022, l’obiettivo europeo della diversificazione energetica non ha prodotto risultati sul piano dei fornitori e solo timidi avanzamenti in materia di rotte. Per quale motivo i Paesi europei hanno difficoltà a diversificare la geografia delle forniture?
“È una situazione piuttosto variegata: per quanto riguarda i Paesi Baltici, essi sono molto legati – per ragioni storiche – alla Russia, dal momento che hanno fatto parte dell’Unione Sovietica e ne erano dipendenti al 100%. È un retaggio storico. Altri Paesi in realtà non sono così dipendenti: la Spagna ha molti rigassificatori e una flessibilità maggiore rispetto ad altri. La Francia ha il nucleare, che tra l’altro compriamo: quando De Gaulle ha avviato il programma di costruzione di centrali atomiche, non l’ha fatto per ragioni di carattere economico, bensì per una questione di sicurezza nazionale. De Gaulle riteneva che uno Stato senza una sicurezza energetica non fosse completamente sovrano, e ha avviato questo percorso di costruzione di centrali nucleari proprio per garantirsi una purché parziale autonomia.  Per quanto riguarda gli altri Stati, l’Inghilterra aveva gas, aveva petrolio e ora ovviamente ne ha molto meno. L’Olanda era autosufficiente con il grande giacimento di Groningen, che però in questo momento si sta esaurendo.”.

Quale ruolo potrebbe avere il gas del Mediterraneo Orientale nella risoluzione del problema della sicurezza energetica europea? A tal proposito, quanto incidono le tensioni politico-economiche tra gli Stati rivieraschi quali Turchia, Libia, Egitto, Cipro e Grecia?
“Ci sono due ordini di difficoltà. La prima è di carattere economico, nel senso che l’estrazione del gas nel bacino del Mediterraneo Orientale è un gas estremamente caro da produrre. Vi è poi un problema di evacuazione: come facciamo ad esportarlo? La costruzione di gasdotti è estremamente onerosa – si tratterebbe di gasdotti che dovrebbero andare molto in profondità, poiché le acque del bacino del Mediterraneo Orientale sono acque molto profonde. Successivamente, vi è poi una questione di carattere geopolitico: in questo momento, il tema dell’accordo della Zona Economica Esclusiva firmata tra la Libia e la Turchia (che di fatto taglia in verticale il Mediterraneo) rende difficile la costruzione di gasdotti – a prescindere dalle considerazioni di carattere economico. Sicuramente è un accordo in violazione del diritto internazionale, ma mentre l’UE manda note diplomatiche di protesta, la Turchia per proteggere questa zona manda delle navi da guerra. È quindi di facile comprensione chi vincerà questa battaglia. Ad ogni modo, vi sono difficoltà interne anche ad Israele e in riferimento alle zone ancora contese con il Libano. Tutto ciò rende questo gas geopoliticamente molto instabile.”.

Quale potrebbe essere quindi la soluzione?
“La soluzione potrebbe essere quella di usare due liquefattori che esistono in Egitto, ovvero mettere questo gas nei liquefattori egiziani e poi esportarlo. Tutto ciò è ancora in “alto mare”. Per darle un’idea, quando 4 anni fa vi è stata la costituzione di un gruppo di lavoro di tutti i Paesi del Mediterraneo sullo sfruttamento di questo gas, l’Italia non ha partecipato perché non si voleva che ci fosse la possibilità che un gasdotto approdasse in Italia. Il Movimento 5 stelle ha vietato la partecipazione dell’Italia a questo “comitato”: anche se in realtà, in un secondo momento, la decisione è stata rivista, si comprende bene come la nostra politica energetica sia molto miope. Non abbiamo partecipato ad un gruppo di studio per il timore che un ulteriore gasdotto arrivasse in Italia.”.


Note

[1] Leonardo Bellodi, è Senior Advisor presso la Libyan Investment Authority e Secretary General del Marco Polo Council. Ha lavorato per le Nazione Unite e in uno studio legale specializzato in arbitrati di diritto pubblico internazionale per poi ricoprire numerosi incarichi in Eni, da ultimo come Executive Vice-President Governmental Affairs. Ha svolto anche il ruolo di docente di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea presso l’Università Cattolica di Milano, l’Università Europea di Roma e l’Università di Padova. È autore di diversi manuali universitari, editorialista per alcuni quotidiani e libri.


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