Il colonialismo degli ultimi secoli ha stravolto totalmente il concetto di identità personale e comunitaria in determinati paesi. In Egitto, ad esempio, possiamo notare come il teatro e la sua evoluzione rispecchi perfettamente le dinamiche tra colonizzatore e colonizzato, passando poi per la richiesta di indipendenza fino ad arrivare ad una totale personalizzazione del teatro e del concetto di rivoluzione.
Apertura dei teatri in Egitto
I primi spettacoli teatrali in Egitto vengono messi in scena durante l’occupazione coloniale francese con lo scopo di rallegrare i militari e distogliere l’attenzione alla popolazione locale[1], le prime pièce da rappresentazioni puramente amatoriali portarono alla successiva apertura della prima ‘sala teatrale’ il 13 dicembre del 1800 ad al-Azbakiyyah.
Da una prima fase in cui solo gli europei possono mettere in scena opere teatrali, si arriva ad un passaggio in cui anche agli arabi è permesso esprimersi, tuttavia, secondo il costume francese. D’altronde è ancora lontano il concetto di libertà di espressione: le opere messe in scena, infatti, sono costrette a passare sotto lo sguardo attento della censura e hanno l’obbligo di diffondere quelli che sono gli ideali europei.
Al-Iqtibās – Il teatro coloniale
Con il termine iqtibās si intende l’adattamento delle opere europee alle esigenze del pubblico arabo, fenomeno che si inserisce all’interno di un movimento di traduzione incoraggiato dalle autorità locali. Le opere del patrimonio europeo da cui prendono spunto sono innumerevoli: da Corneille a Racine, da Hugo a Shakespeare. Tuttavia, questi lavori non consistevano in semplici traduzioni ad un livello prettamente linguistico, non sono infatti tarjamah (traduzione), ma veri e propri riadattamenti il cui intento è quello di ambientare la vicenda in un contesto e un luogo arabo, motivo per il quale si parla infatti di ta‘rīb (arabizzazione) o spesso di tamṣīr (“egizianizzazione”).
Tuttavia, a seguito della Prima Guerra Mondiale e della conseguente perdita di controllo dell’Impero Ottomano sull’Egitto, nasce l’esigenza da parte di artisti locali di mettere in atto opere proprie che rispecchino e rispettino le loro esigenze. L’autore più rappresentativo è sicuramente Farah Antūn il quale si afferma come autore sociale, non riconoscendo la modernità come privilegio dell’Europa, ma vedendo quest’ultima come un ulteriore oppressore politico. Le sue opere “L’Egitto vecchio e nuovo” (1913) e “Il sultano Saladino e il regno di Gerusalemme” (1914) riflettono quello che è il pensiero dell’egiziano medio del tempo, quello cioè di liberarsi dalle ingerenze turche e dall’imperialismo occidentale. Tutte queste opere però non passano inosservate alla censura, gestita dal 1920 totalmente dai coloni britannici; tra le vittime infatti troviamo l’autore Ahmad Shawqī che viene costretto all’esilio in Spagna a causa dei suoi componimenti antibritannici.
Il processo di riaffermazione di una cultura egiziana sarà lungo: nella prima metà del XX secolo i drammaturghi arabi saranno costretti a mettere in scena le loro opere con la presenza fisica del colonizzatore nel paese, il che sarà causa di impedimenti e rallentamenti; la seconda metà del XX secolo invece è caratterizzata da una Repubblica Egiziana libera, capace di potersi manifestare senza eccessive difficoltà.
Il teatro post-coloniale
Nella seconda metà del XX secolo la storia egiziana (ed araba) subisce ulteriori cambiamenti. Grazie alla rivoluzione degli Ufficiali Liberi del 1952 il re Farūq viene destituito e le truppe britanniche sono costrette a lasciare il paese; nel 1954 il nuovo presidente della Repubblica araba sarà ‘Abd el-Nasser, considerato il leader del nazionalismo arabo. Questa politica culturale non passa inosservata agli occhi del teatro arabo, il quale viene sostenuto da un nuovo ministero che si occuperà di tutto il settore artistico. Il teatro sarà accompagnato da un discorso politico abbinato ad una nuova sperimentazione artistica, dando vita al «teatro impegnato»[2]. Da questo momento in poi diversi autori cercano di mettere in scena quella che è la realtà attuale del paese attraverso il loro patrimonio culturale (al-turāth), infatti le pièce di questo periodo si alterneranno tra opere classiche ed opere contemporanee di carattere sociale e politico, al fine di portare avanti un teatro autenticamente arabo e popolare. Si sviluppa così il discorso su al-ta’ṣīl, basato sulla ricerca di un teatro arabo autentico e originale.
Si arriva dunque al periodo post-coloniale del teatro arabo, in cui il popolo deve affrontare il dilemma tra modernità e tradizione. È in questo momento che si rinstaura il confine colonizzatore-colonizzato: il popolo arabo è stanco di dover mettere in scena un qualcosa che non rifletta la propria cultura, vuole affermarsi esaltando le proprie differenze dall’Europa. Per l’avvio di questo nuovo teatro è stata di particolare importanza la conferenza tenutasi ad Hammamet dal 14 al 21 gennaio 1965, durante la quale viene stilato un documento che stabilisce che il teatro «debba contribuire alla definizione di una matrice culturale comune a tutto il mondo arabo»[3].
Le esigenze egiziane non sono le uniche a livello mondiale, per gli stessi motivi nasce infatti il Third World Theatre Movement, le cui conferenze, la prima delle quali a Manila nel ’67, la seconda a Shiraz, in Iran, nel ’73, portano alla risoluzione Tendencies and Prospects for Third World Theatre. L’idea principale era quella di creare un teatro autenticamente asiatico, africano, latino-americano, per preservare le tradizioni culturali e rispecchiare le identità nazionali, evitando l’imitazione delle forme del teatro occidentale, con lo scopo di rinnovare il proprio patrimonio e dar vita a una moderna sperimentazione.
Durante questo periodo il teatro ha come obiettivo principale il pubblico, gli autori prestano ascolto ai loro spettatori al fine di mettere in scena opere che possano essere apprezzate da tutti. L’idea è quella di trasmettere tramite il teatro uno spirito nazionalista, un’idea di fierezza nei confronti del proprio paese. A questo proposito uno dei drammaturghi arabi più apprezzati del XX secolo, Sa‘d Allāh Wannūs, parla di un «teatro sperimentale politicamente impegnato»: il teatro è un ‘evento sociale’ in cui il pubblico è l’elemento centrale e lo scopo è di formare una coscienza collettiva. Tramite l’uso del ‘teatro di politicizzazione’ egli vuole «rendere gli spettatori consapevoli, stimolandoli affinché diventino protagonisti di un’azione di trasformazione sociale e politica»[4].
Allo stesso modo Laura Mulvey parla del rapporto tra lo spettatore e il testo cinematografico, mettendo in evidenza l’importanza del subconscio e della consapevolezza legata ad esso nell’assistere ad una tale opera teatrale.[5]
Il teatro contemporaneo come rappresentazione del “reale”
Nel quadro socio-politico moderno dell’area MENA, è stato fondamentale il ruolo del teatro specialmente con l’evolversi della primavera araba del 2011. È infatti un periodo in cui gli artisti attivisti mettono in scena ‘la sfera pubblica’ per far emergere le loro posizioni e il loro dissenso. Il teatro è quasi l’unico mezzo di comunicazione: TV, radio e internet sono sotto controllo della censura e talvolta vengono sospesi per evitare la diffusione di messaggi pro-rivoluzionari. Le rappresentazioni diventano degli strumenti per mantenere accesi gli spiriti. Siamo infatti in un punto in cui il teatro e la sfera pubblica sono in un continuo rapporto di intersezione e scambio, un rapporto che viene definito “tra dentro e fuori”, ovvero un interscambio palcoscenico-pubblico ma anche attore-spettatore, che interseca le dinamiche interne al teatro con quelle esterne della sfera politica e sociale[6].
In questo contesto si inseriscono opere teatrali come Yahia Yaïch, scritta dai tunisini Jalila Baccar e Fadhel Jaïbi, considerata la pièce teatrale più significativa nel rappresentare la caduta del dittatore prima della primavera araba, l’opera è un chiaro attacco ai politici, invitati a rivedere i loro rapporti con i cittadini.
Siamo in un momento storico in cui il confine tra realtà e finzione è davvero molto labile, ciò che viene messo in scena è talmente simile alla realtà che si confonde con essa stessa. Il teatro non solo trasmette ciò che è reale, ma lo fa mentre la realtà stessa sta accadendo. Con lo stesso scopo viene messa in atto l’opera del giornalista egiziano Sondos Shabayek, The Tahrir Monologues. Anche in questo caso l’opera ha lo scopo di supportare i cittadini, i quali si sentono protagonisti non tanto della storia, ma della Storia, in quanto fatto realmente accaduto sulla loro pelle. È così dunque che l’arte si mescola con la quotidianità, non è più un qualcosa di astratto ma di quanto mai vero e reale. Gli attori non sono lì per recitare ma per narrare ciò che sta accadendo al loro paese, con la speranza di comunicare ai loro concittadini, e al mondo intero, le loro ideologie.
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Note
[1] Ruocco, M. (2010). Storia del teatro arabo – Dalla nahdah a oggi. Roma: Carocci, p.27
[2] Ivi, p.27
[3] Ivi, p.165
[4] Ivi, p.193
[5] Ianniciello, C., & Quadraro, M. (2015). Memorie transculturali. Estetica contemporanea e critica postcoloniale. Napoli: Università degli Studi di Napoli “L’ Orientale”
[6] Balme, C. (2011, Giugno 2). The Affective Public Sphere: Romeo Castellucci’s On the Concept of the Face. Keynote Address. Tangeri, Performing Transformations Conference.
Foto copertina: Zangaki Brothers, “Egyptian lady” 1890-1900, picture postcard