La morte di Aldo Moro “inizia” in tempi non sospetti; il momento della concentrazione di oscuri movimenti nei confronti del democristiano comincia a serpeggiare in ambienti interni ed internazionali già a partire dalle prime intenzioni riformiste degli ambienti della cosiddetta democrazia cristiana di sinistra. Con Moro segretario di partito l’avvicinamento della “Balena bianca” alle istanze socialiste apre un primo spiraglio in quell’equilibrio politico, fin ad allora granitico, che garantiva una forte e indiscutibile appartenenza dell’Italia all’area atlantica del mondo.
A cura di Gianmarco Castaldi
L’uscita delle sinistre (comunisti e socialisti) dal governo De Gasperi nel 1947 segnò un serio mutamento di passo nell’avvenire politico italiano, che in buona sostanza poneva come punto principale il definitivo spostamento dell’Italia nell’area di influenza americana. La Costituzione non era ancora stata promulgata e la Democrazia cristiana, guidata all’epoca da Alcide De Gasperi, capo del governo, gettava le basi per una sua permanenza granitica al potere.
In particolare, fu proprio sotto l’impulso di una pressione americana, influenza generata da una seria condizione drammatica dell’Italia del Secondo dopoguerra, che la Dc orientò il Paese verso le garanzie offerte dagli Usa all’interno del cosiddetto Piano Marshall. Si trattava di aiuti rivolti alle popolazioni europee duramente colpite dal conflitto mondiale, che prevedeva, oltre a risorse economiche e di vario genere, anche un controllo sul posizionamento internazionale degli Stati coinvolti. La principale clausola per ricevere tali aiuti era l’esclusione dei partiti comunisti e socialisti dal governo. La Dc non si fece attendere. Portata a termine quindi l’esperienza governativa con le sinistre, che aveva trovato i natali sull’impronta ciellenistica della Resistenza, De Gasperi virò definitivamente il governo italiano verso il centro ideologico, rappresentato dalle istanze popolari del suo partito e dall’anticomunismo intransigente.
L’estensione di tale politica occidentale ad altri Paesi come la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la divisione della Germania devastata dal conflitto e la nascita delle due alleanze internazionali, la NATO ad Occidente e il Patto di Varsavia ad Oriente, sancirono l’inizio della Guerra fredda.
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La fase del “Centrismo”, periodo di governo che aveva come perno centrale la Dc sostenuta da una coalizione formata dal Psdi, Pri e Pli, che negli anni aveva dato dei segnali di spostamento a destra delle politiche adottate, incontrò una primafase di crisi intorno al 1953. Un elemento importante del declino fu l’approvazione della cosiddetta “legge truffa” (legge 31 marzo 1953, n.148) che modificò il meccanismo elettorale in vigore, assegnando un importante premio di maggioranza alla coalizione, o alla lista, che avesse raggiunto il 50% dei voti. Ciò comportava la consegna del 65% dei seggi della Camera dei Deputati al partito, o alla coalizione di partiti, che avesse raggiunto la soglia stabilita.
Sulla base della “legge truffa” si svolsero le elezioni politiche del 1953. Il premio non riuscì comunque ad attivarsi a causa del mancato raggiungimento dei raggruppamenti politici della soglia del 50%. La legge venne abrogata l’anno successivo.
Un secondo elemento che destò la crisi del centrismo fu la morte del suo principale fautore Alcide De Gasperi. Lo statista democristiano, dopo le dimissioni da Capo del governo nell’agosto del 1953, non avendo ottenuto la fiducia dalla Camera, lasciò la segreteria della Dc l’anno successivo. Amintore Fanfani prese il suo posto. De Gasperi morì il 19 agosto del 1954.
La seconda generazione democristiana, che provò a costruire una valida alternativa di leadership a De Gasperi si muoverà in direzioni strategiche differenti rispetto agli anni del centrismo. Si noti, in via principale, l’atteggiamento democristiano, costruito dalla segretaria Fanfani, volto in parte ad autonomizzare il potere e il dominio della Dc, tramutatosi in via principale in tentativi cospicui di rafforzamento dell’organizzazione del partito e di controllo sulla pubblica amministrazione e aziende parastatali – su tutte l’IRI e l’ENI.
Inoltre, uno degli obiettivi dei fanfaniani alla guida, che riprendeva in forme più deboli e solo in parte i progetti di Dossetti, riguardava una limitazione del potere economico della grande borghesia, con il progressivo intervento politico dello Stato. Questa impostazione politico-economica destava non poche preoccupazioni per l’influenza che la politica avrebbe avuto sulla gestione delle partecipate pubbliche.
Ammaestrato dall’esperienza di Dossetti, Fanfani ne riprese parzialmente il progetto, presentandolo però come compatibile col capitalismo tradizionale. L’ampliamento dell’intervento politico nell’economia rimaneva l’obiettivo di fondo. Ma […] la presenza pubblica veniva identificata, più che con un ampliamento della partecipazione democratica, col potere gestionale della stessa classe politica democristiana proiettata nelle imprese pubbliche […][1].
In concomitanza con le teorizzazioni di Fanfani, cominciarono a svilupparsi all’interno della corrente democristiana “Iniziativa democratica”, che lo aveva voluto come segretario ma che già dal Consiglio nazionale del 1957 si poneva, almeno in parte, in polemica con lo stesso, delle posizioni non del tutto confluenti con quelle del leader toscano. Dubbi che nascevano anche dal fatto che in quegli anni, i socialisti del Psi rompevano il patto d’azione stipulato con i comunisti e aprivano uno spiraglio di riavvicinamento ai socialdemocratici e quindi a parte della maggioranza. In un appunto di Montanelli sulla situazione si legge: «I socialisti salpavano lentamente le ancora dalle acque comuniste, e questo solo fatto riapriva prospettive d’unificazione, anche se vaghe e per il momento inconcludenti, con i socialdemocratici»[2].
A preoccupare i futuri “dorotei”, chiamati così perché riunitisi nel convento di Santa Dorotea a Roma in vista del Consiglio nazionale del partito del 1959 – dove la spaccatura della corrente sancirà la fine della segreteria di Fanfani – ,fu il progetto del leader. Una mossa considerata infruttuosa se non del tutto pericolosa data la velocità di intervento richiesta dal segretario.
I dorotei rappresentavano la tendenza di “Iniziativa democratica” convinta che nel periodo 1957-1959 la Dc non fosse sufficientemente forte per realizzare l’espansione del potere politico nell’economia nei tempi relativamente brevi ipotizzati da Fanfani. Il progetto dossettiano, che il segretario del partito riprendeva tanto depotenziato e mascherato, era pur sempre percepibile in termini di riduzione del potere economico della grande borghesia. E come tale era ancora troppo pericoloso per la Dc[3].
Il doroteismo come corrente scissa da “Iniziativa democratica” nacque nel 1959. Essi si presentarono come la tutela politica agli interessi del capitalismo industriale italiano apparentemente in polemica con le posizioni assunte da Fanfani. In questo modo, tale inedita conformazione interna, prendeva tempo, nel tentativo di far maturare la situazione e le condizioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi prefissati dal segretario. In buona sostanza, il doroteismo nasceva inizialmente come modello alternativo ma solo per attenuare la velocità di consolidamento del progetto di intervento pubblico in economia e creare una più favorevole condizione a tutta la Democrazia cristiana.
Occorre dissimulare, manipolare, mascherare, rinviare, più di quanto Fanfani abbia fatto e sappia fare; è necessario che il processo sia tanto graduale e quasi inavvertibile da impedire la coagulazione degli interessi minacciati. E i dorotei si presentano addirittura come portavoce e tutori degli interessi del grande capitale privato minacciato dai disegni fanfaniani. Essi […] si offrono al grande capitale come rappresentanti dei suoi interessi, ma in realtà si propongono (forse non tutti e non del tutto consapevolmente) di far guadagnare alla Dc il tempo e le posizioni necessarie affinché il progetto di Fanfani possa realizzarsi, sia pure a scadenza differita[4].
Il primato della politica, e un suo diretto intervento nell’ambito economico, interessava, com’è noto, le posizioni ideologiche del socialismo. Con la crisi ungherese del 1956, Nenni, capo della corrente autonomista del Psi, si allontanò sempre più dai cugini comunisti, impegnati dalla loro, seppur in posizioni contrastanti all’interno – smorzate dalla logica del centralismo democratico di leninista memoria – a difendere le posizioni sovietiche. Fanfani convinto del suo progetto sembrò tendere una mano ai socialisti.
Un importante segnale arrivò in occasione del Consiglio nazionale Dc di Vallombrosa (1957), in cui il segretario parlò del socialismo come un problema differente dal comunismo. Il cambio di posizione dell’asse democristiano fu rafforzato dalla dichiarazione di Fanfani che riconobbe la possibilità da parte della Democrazia cristiana di riferirsi al Psi in maniera doppia: contrasto o alleanza in base alle posizioni dei socialisti italiani, un partito che comunque si presentava meno pericoloso rispetto al Pci e verso cui ormai non era più escluso un allargamento della maggioranza.
È importante, a questo punto, sottolineare come questa affermazione presa all’interno di un’analisi odierna, in buona sostanza si trattava di imporre la linea democristiana al Psi trasportandolo su posizioni riformistiche lontane dalla rivoluzione comunista, traccia una sintesi chiara di quella che sarà buona parte la politica di Moro fino alla sua morte nel 1978.
Nel 1959, dopo un lungo periodo di crisi interna al partito e al governo, Fanfani lasciò la segreteria del partito. Il Consiglio nazionale della Democrazia cristiana affidò la leadership del partito ad Aldo Moro, vicino ma autonomo alla corrente dei dorotei, che ottenne la gestione del partito anche grazie ai voti di alcuni fanfaniani. Caratterizzato da un moderatismo spiccato e da un procedere sicuramente meno carismatico dell’ultimo leader, Moro sembrò essere un segretario di transizione. Ma la sua investitura in realtà aprì un dibattito interno che portò al duro confronto l’ala riformista contro i conservatori.
Tuttavia Moro si pose in maniera definitiva, voluto dal Congresso, alla guida della Dc. Egli in quel tempo perseguiva un disegno politico, caratterizzato da un netto spostamento verso sinistra, che prevedeva un distanziamento dal Partito liberale. Dopo la parentesi del governo Tambroni, decisamente rivolto verso destra forte dell’appoggio esterno del Movimento sociale italiano, «tutta la Dc, da Sullo a Scelba, tratta coi partiti di centro, sotto la guida di Moro e di Gui, e il segretario del partito escogita la formula, che diverrà celebre, delle “convergenze parallele”»[5]. Il piano prevedeva la formazione di un governo monocolore democristiano, sostenuto dal voto di fiducia dei socialdemocratici, dei liberali e dei repubblicani con l’appoggio esterno, sotto forma di astensione del Psi a sinistra e del Partito democratico di unità monarchica a destra. Il centro-sinistra era sempre più vicino.
I dorotei, insieme con Moro, ripresero un progetto d’intesa con il Psi del 1956 che prevedeva l’avvicinamento dei due partiti nella circostanza delle elezioni amministrative. Si costituirono, a partire dal 1961, le prime giunte di centro-sinistra in importanti città italiane, tra cui Genova, Milano e Firenze. Ma sul piano nazionale l’ingresso diretto nella maggioranza di governo da parte del Partito socialista italiano, il partito più antico del Paese, stentava ancora a palesarsi. Dopo tre governi anticipatori, Fanfani III, Fanfani IV e Leone I, il primo governo di centro-sinistra prese vita nel dicembre del 1963. Per la prima volta alla Presidenza del Consiglio giunse Aldo Moro, il politico democristiano che più di tutti aveva voluto l’alleanza con i riformisti e che, giunto a Palazzo Chigi, lasciò nel gennaio del 1964 la segreteria del partito[6].
Il lungo processo che portò solo alla fine del 1963 la formazione riformista al governo fu causato dai piedi di piombo che la Dc volle mantenere per evitare di compromettere il suo potere e il suo ruolo di perno centrale delle maggioranze.
Per raggiungere un tale scopo, il partito dei cattolici mise in atto una formula riformistica lenta per tentare di incorporare le istanze sociale che venivano dalla società industriale creatasi a partire dal boom economico[7].
In questa circostanza, un avvicinamento al Psi significava voler incorporare nel governo una buona parte delle posizioni di alcune masse popolari che il socialismo rappresentava e che si distanziavano progressivamente dai valori cristiani.
Non è da dimenticare che a meno di vent’anni dalla fine della guerra e del fascismo l’Italia restava uno Stato sorvegliato. In primo luogo in quanto sul suolo italiano viveva il più importante partito comunista d’Occidente e soprattutto per il suo posizionamento nel Mediterraneo a sud e sulla frontiera nemica ad est.
Cosa fu il centro-sinistra per la Dc? […]: per la Dc il centro-sinistra fu uno sforzo finalizzato a consolidare la propria egemonia nella società industriale in sviluppo, che di per sé metteva in discussine i valori cattolici sui quali tale egemonia era stata costruita dalla fine della guerra alla fine degli anni Cinquanta. […]
Il gruppo dirigente della Dc ritenne di poter conciliare il consolidamento dell’egemonia con una politica di cauto riformismo essenzialmente basata sullo sviluppo dei servizi sociali[8].
La parabola del centro-sinistra attraversò buona parte degli anni Sessanta e durò, con alti e bassi, fino alla metà degli anni Settanta. Durante questo decennio, l’Italia, come buona parte del resto d’Europa – e più in generale del mondo occidentale – si trovò ad affrontare un periodo di tensione sociale molto elevata. A partire dal 1968, numerosi gruppi della sinistra extraparlamentare e di stampo neofascista diedero vita a quel periodo meglio conosciuto come “Anni di Piombo”, che durò fino all’inizio degli anni Ottanta. Sigle come Prima linea, Brigate rosse, Nuclei armati proletari a sinistra e Ordine nuovo, Nuclei armati rivoluzionari e Ordine nero a destra gettarono sul Paese un clima di scontro sociale che portò alla fine tragica molte personalità importanti del panorama politico nonché numerose forze dell’ordine e giovani studenti e operai.
La contestazione nata durante il ’68 sulla base di principi come l’egualitarismo, l’anticapitalismo e la società aperta cedeva il passo a forme di violenza politica che immobilizzarono il Paese e le istituzioni democratiche.
Al terrorismo politico, a cui si aggiunse la paura di un eventuale colpo di Stato come avvenuto in Cile nel settembre del 1973, si coniugò una forte crisi economico-finanziaria che travolse le principali economie europee.
Da parte della Dc, intenta a mantenere il potere politico, l’apertura verso un ritorno del Pci al governo non era più rimandabile. Il processo ovviamente avvenne nei tempi lenti del sistema italiano. Dopo vari avvicendamenti interni alle correnti, il nome designato alla guida del partito fu Benigno Zaccagni. Voluto fortemente da Moro, che nel frattempo si era allontanato dai dorotei, il nuovo segretario – eletto nel 1975 – , come Moro nel 1959, appare come una soluzione temporanea e provvisoria. Il compito che gli venne assegnato da una buona parte del partito si tradusse nella chiara propensione verso i comunisti, mantenendo comunque l’egemonia sul governo italiano. La trattativa mirava in un primo momento ad invitare il Pci a portare avanti una opposizione che non si presentasse come alternativa alla maggioranza. A preoccupare ulteriormente i dirigenti democristiani fu l’esito delle elezioni amministrative e regionali tenutesi nel maggio del 1975, in cui la propensione dell’opinione pubblica virò significativamente verso le posizioni del Pci.
La situazione incandescente rese possibile l’intervento di Aldo Moro.
In qualità di principale attore e stratega del centro-sinistra, lo statista di Maglie, che nel 1975 ricopriva la carica di Presidente del Consiglio, propose la tesi per cui la Dc avrebbe dovuto avviare una cosiddetta “strategia dell’attenzione verso il Pci” che avrebbe portato a un serio confronto tra i due principali partiti.
Nel suo discorso al Consiglio nazionale di luglio – che portò alla designazione di Zaccagnini come segretario – , riferendosi alla tornata elettorale di maggio, si legge:
C’è stata una vittoria dell’opposizione. Essendo la Dc logorata da trent’anni di esercizio del potere è comprensibile […]. Il fenomeno è fisiologico, essendo tipico delle democrazie l’alternarsi di forze politiche al potere. […]. Ma si constata una certa mancanza di riflessione nella misura nella quale viene scelto il Partito comunista […]. È difficile dire cosa accadrà.
L’avvenire non è più, in parte, nelle nostre mani. Non possiamo fare come se nulla fosse avvenuto. Qualche cosa è accaduto e peserà su di noi. Bisogna guardare avanti con coraggio e dignità. […]. È cominciata una terza, difficile fase della nostra esperienza[9].
Dalla parte del Pci, una possibile intesa con i democristiani deriverebbe dal timore che una presa del potere delle destre in Italia, favorita da manovre internazionali come in Cile, getterebbe il Paese in una dittatura sanguinaria di stampo neofascista. In particolare preoccupavano le attività ombrose già apertamente verificatesi nel 1970 con il tentativo di golpe di forze fasciste guidate da Junio Valerio Borghese, capo della X Flottiglia Mas e fedele repubblichino di Mussolini, e le bombe che inasprivano il terreno di una possibile guerra civile.
Nel 1976, il segretario del Pci, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, dichiarava che l’appartenenza alla NATO in termini di alleanze internazionali garantiva al Paese stabilità e forza democratica. Quello stesso anno, i comunisti raggiunsero il più grande risultato mai ottenuto alle elezioni politiche: il 34,4%.
La Dc, da parte sua, riuscì a contenere il sorpasso comunista ma constatò che la misura ormai era colma. Bisognava interiorizzare il consenso comunista nelle file del governo. La soluzione avvenne con una manovra degna dello spirito democristiano. Si prospettò la stagione della “Solidarietà nazionale” che prese forma in un primo momento in un governo monocolore Dc, con a capo Giulio Andreotti – garante delle posizioni filoamericane e occidentali – ,che vedeva il Pci in appoggio esterno mediante l’astensione a un esecutivo cosiddetto della “non sfiducia”. Ma le prime iniziative della formazione videro l’incremento delle tensioni sociali. Nelle fabbriche gli scioperi spontanei crebbero sull’onda del tentativo dell’avvio di blocco della scala mobile. Nel 1977 scoppiò una nuova contestazione nelle università. Molti manifestanti aderirono al gruppo Autonomia operaia che scendeva in piazza con i passamontagna sul volto e inneggiava all’utilizzo della pistola P38 contro le istituzioni, i fascisti e le forze dell’ordine. L’acme della fiammata violenta si raggiunse quando il segretario generale della CGIL Lama fu allontanato dall’università di Roma “la Sapienza” da un corteo di cinquemila studenti.
Questi accadimenti, che avvennero nella primavera del 1977, segnarono la forte opposizione popolare al governo Andreotti. Continuando sulla linea della “solidarietà nazionale”, e in seguito alle attività criminose dei gruppi extraparlamentari – il 2 giugno le Br ferirono alle gambe il giornalista Indro Montanelli – il primo luglio venne raggiunto un accordo programmatico tra i sei partiti (Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli) dell’arco costituzionale. Moro e Berlinguer si strinsero la mano. Dalla soluzione della “non sfiducia” si passò all’appoggio esterno con voto di fiducia, che restò comunque incerto e vacillante, da parte dei comunisti nei confronti del nuovo governo Andreotti.
La presentazione del nuovo esecutivo fu prevista per il 16 marzo. Quella stessa mattina, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, l’uomo che più di tutti aveva lavorato per il consolidamento della Dc e per l’apertura ai comunisti in un quadro internazionale, in bilico tra le due superpotenze mondiali, che non cedeva spazio a possibili incrinamenti in senso opposto all’equilibrio concordato a Yalta.
Proprio a causa di interferenze diffuse nella politica italiana, a partire da Gladio e dalla P2, la fine della parabola di Moro appare ancora oggi come un atto voluto non solo dai brigatisti. L’onorevole nel 1978, reo di aver portato a termine già negli anni Sessanta una svolta a sinistra del governo italiano, aveva presumibilmente forzato troppo la mano promuovendo il ritorno della sinistra comunista al governo. Una tale situazione preoccupava entrambi gli schieramenti internazionali.
Da un lato gli Usa, con l’eterna paura della rivoluzione comunista nel più importante Paese di frontiera europeo; dall’altro lato, l’Urss diffidava del compagno Berlinguer che aveva già nel 1976, e sempre più progressivamente, cominciato ad allontanare il Pci dalle posizioni di Mosca. A tal proposito, appaiono oggi chiarificatrici le parole di Mino Pecorelli, giornalista e direttore della rivista Osservatore Politico, ucciso il 20 marzo 1979, a circa un anno di distanza dal sequestro di via Fani. L’articolo venne pubblicato su OP il 2 maggio 1978.
L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale.
L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il Pci dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. […]. Ciò non è gradito agli americani, perché una partecipazione diretta del Pci al governo altererebbe non solo gli equilibri del potere economico nazionale, ma ancor più i suoi riflessi nel sistema multinazionale. […]. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a palazzo Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla III Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperiale moscovita.
Ancora una volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. È Yalta che ha deciso via Mario Fani[10].
La morte di Moro, sul piano politico, segnò la fine dell’esperimento del “Compromesso storico” che avrebbe gettato le basi per una sana alternanza democratica al potere. La Dc mantenne il suo ruolo di perno centrale all’interno della maggioranza anche negli anni successivi, pur cedendo la carica di Presidente del Consiglio ad altre formazioni partitiche. Iniziavano gli anni Ottanta, l’ascesa di Craxi al governo e il capitolo di chiusura del sistema politico che aveva retto le redini del Paese a partire dal 1948.
Note
[1] G. Galli, op. cit., p. 175.
[2]I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia dei due Giovanni – 1955-1965, RCS Media Group, Milano 2018, p. 55.
[3] G. Galli, op. cit., p. 176.
[4]G. Galli, op. cit., pp. 176-177.
[5]Ivi, p. 195.
[6] Aldo Moro guidò ben cinque governi durante gli anni del centro-sinistra.
[7] Tra le più note riforme del centro-sinistra si ricordano in particolare lo statuto dei lavoratori (1970) e la legge sul divorzio detta “legge Fortuna-Baslini” (1970).
[8] G. Galli, op.cit., pp. 213-214.
[9] G. Galli, op. cit., p. 335.
[10]L. Ruggiero (a cura di), Dossier OP – Le notizie riservate di Carmine Mino Pecorelli, Bologna 2019, p. 215.
Foto copertina: Aldo Moro, congresso DC