La protezione dell’ambiente durante i conflitti armati nel diritto internazionale


Materiali inquinanti, fughe di sostanze chimiche e armi dannose rappresentano alcuni degli inevitabili effetti collaterali dei conflitti armati internazionali a danno dell’ambiente e degli ecosistemi naturali. L’attuale contesto di diritto internazionale prevede disposizioni all’interno di trattati e norme di diritto consuetudinario a tutela diretta ed indiretta dell’ambiente in uno scenario di guerra; tuttavia, emergono numerosi interrogativi giuridici in merito all’attuazione ed implementazione, nonché all’applicazione di accordi ambientali multilaterali nel corso di conflitti armati.


Conflitti armati internazionali e ambiente

Attualmente, sebbene numerose disposizioni giuridiche internazionali garantiscano – direttamente o indirettamente – la protezione dell’ambiente e regolino l’uso delle risorse naturali nel contesto dei conflitti armati, tanto l’ambiente quanto le comunità che da esso dipendono per la propria sussistenza appaiono altresì essere le vittime silenziose dei danni e delle distruzioni provocate dagli scontri militari.[1]
Al contempo, lo sfruttamento prolungato delle ricchezze naturali di una regione è ampiamente considerato essere tra le principali ragioni alla base dello scoppio di conflitti armati, della povertà e, in ultima analisi, di migrazioni, specialmente in paesi le cui istituzioni risultano essere deboli o addirittura collassate.[2]

Un primo riconoscimento dei potenziali impatti ambientali dei conflitti armati risale al XVII secolo, quando in De iure belli ac pacis il giurista umanista olandese Ugo Grozio mostrò grande preoccupazione per la contaminazione delle acque e la devastazione del territorio in tempo di guerra. [3]
Tuttavia, la protezione dell’ambiente nel contesto bellico ha assunto maggiore rilevanza all’interno del dibattito internazionale solamente a partire dal 1945, come conseguenza dei potenziali effetti negativi sull’ambiente della sperimentazione di armamenti nucleari.[4] In particolare, l’apogeo dell’attenzione pubblica si verificò in seguito alla distruzione delle foreste e all’utilizzo di napalm sulle mangrovie per opera dell’esercito americano durante la guerra in Vietnam fra il 1955 e il 1975. Pertanto, successive mobilitazioni internazionali sono culminate nell’emanazione di due strumenti giuridici internazionali, la Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari (ENMOD) del 1976,[5] e il Protocollo Aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra del 1977. [6]
Allo stesso modo, il deterioramento dell’ecosistema marino, lo sversamento di petrolio e gli ingenti danni ambientali derivanti dal conflitto fra Iran e Iraq tra il 1980 e il 1988 portarono il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a denunciare – con la risoluzione 540 del 31 ottobre 1983 – violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dei belligeranti.[7]
Più recentemente, danni ambientali commessi nei conflitti in Ex Jugoslavia, Kosovo ed East Timor hanno contribuito alla riapertura del dibattito giuridico sull’effettiva attuazione delle disposizioni internazionali. Tuttavia, fu la guerra del Golfo agli inizi degli anni 90 il vero spartiacque nel tentativo di ritenere Stati ed individui responsabili per illeciti ambientali provocati durante i conflitti armati.
Di fatto, la distruzione intenzionale da parte dell’esercito iracheno di oltre 600 pozzi petroliferi in Kuwait è risultata nella responsabilità dell’Iraq per danni all’ecosistema e in un successivo risarcimento pari a 85 miliardi di dollari. [8]

Disposizioni all’interno di trattati relativi allo Ius in bello per la protezione dell’ambiente

Nel diritto della guerra, la protezione ambientale durante i conflitti armati è esaminata da numerose disposizioni all’interno di trattati. In particolar modo, l’art. 23(g) dei Regolamenti dell’Aia sul rispetto delle leggi e degli usi della guerra sulla terraferma del 1907[9] vieta atti volti a “distruggere o sequestrare le proprietà del nemico, a meno che tale distruzione o sequestro non sia imperativamente richiesto dalle necessità della guerra”.[10] Sebbene non venne redatto con una specifica considerazione per l’ambiente, il riferimento alla proprietà umana all’interno dell’art. 23(g) protegge potenzialmente le risorse naturali di proprietà dello Stato, come nel caso di impianti petroliferi e raffinerie che potrebbero agevolmente divenire obiettivi militari.[11]
Il Protocollo di Ginevra per la proibizione dell’uso in guerra di gas asfissianti, velenosi o di altro tipo, e di metodi guerra batteriologici del 1925 fornisce inoltre un quadro considerevole per la protezione dell’ambiente durante i conflitti armati. Di fatto, sulla scia delle devastanti implicazioni dell’impiego di gas nocivi durante il primo conflitto mondiale, il Protocollo ha riconosciuto le conseguenze pericolose dell’uso delle armi chimiche anche in riferimento agli ecosistemi naturali.
Più recentemente, pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati codificarono le regole e le consuetudini della guerra in quattro convenzioni, affrontando specificatamente la questione della protezione dell’ambiente nel contesto dei conflitti armati negli art. 53 e 147 della Convenzione di Ginevra (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra del 1949.
In particolare, tali articoli configurano come violazione della Convenzione la distruzione e l’appropriazione illegale e sconsiderata della proprietà in assenza di necessità militari. Su questa linea, ulteriore protezione è fornita dall’art. 35(3) e dall’art. 55 del successivo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 adottato nel 1977, che per la prima volta ha espressamente proibito che l’ambiente venga impiegato come specifico obiettivo militare, concependolo pertanto come intrinsecamente inestimabile al di là della mera utilità per gli individui in termini di risorse.[12]
In particolare, l’art. 55 impone obblighi di dovuta diligenza in capo agli Stati parte, che sono pertanto tenuti ad effettuare una valutazione di impatto ambientale in via preventiva al lancio di operazioni militari, su base continuativa e sia in operazioni offensive che difensive.[13]  Infine, un passo avanti nella criminalizzazione delle condotte ambientali dannose è fornito – a livello internazionale –  dallo Statuto del 1998 della Corte penale internazionale, che all’art. 8(2)(b)(iv) annovera i crimini contro l’ambiente tra i crimini di guerra, perseguendo di fatto “il lancio intenzionale di un attacco con la consapevolezza che tale attacco causerà […] danni diffusi, a lungo termine e gravi all’ambiente naturale, che sarebbero chiaramente eccessivi in relazione al vantaggio militare globale, concreto e diretto previsto”. [14]

Protezione ambientale in tempo di guerra e consuetudini internazionali

Oltre alle disposizioni dei trattati, l’ambiente è ulteriormente protetto in tempo di guerra da una serie di norme consuetudinarie del diritto internazionale. In primo luogo, ai sensi del principio di necessità, per essere lecite le armi e le tattiche che implicano l’uso della forza devono essere ragionevolmente necessarie al raggiungimento di un obiettivo militare.[15]
Di conseguenza, le azioni intese a distruggere o impadronirsi delle proprietà del nemico che non sono imperativamente richieste da esigenze belliche risultano illecite. Nonostante non venga direttamente menzionato, l’ambiente sembra essere incluso nel suddetto concetto di proprietà, ricevendo pertanto protezione solo in via indiretta. Ciò è confermato dalla giurisprudenza dei Tribunali di Norimberga, i cui i giudici hanno fatto uso del principio di necessità per condannare ex ufficiali nazisti con l’accusa di distruzione di proprietà nemica.[16]
In secondo luogo, il principio di discriminazione prevede che la protezione ambientale nei conflitti armati possa derivare dalla distinzione tra oggetti militari e civili. Alla luce di ciò, attacchi mirati nei confronti di aree significative dal punto di vista ambientale come parchi nazionali e foreste sarebbero contrari al suddetto principio.[17] Inoltre, armi o tattiche che causano inutili sofferenze alle vittime – sia provocando una lunga agonia e/o una morte dolorosa, sia causando grave spavento o terrore, sono considerate intrinsecamente contrarie al principio di umanità.

Di conseguenza, ogni forma di danno ecologico deliberato come l’avvelenamento delle riserve d’acqua o la distruzione dei terreni agricoli appaiono rientrare nel campo di applicazione del presente divieto.[18]
Infine, il principio di proporzionalità richiede che il danno incidentale nei confronti dell’ambiente non sia eccessivo in relazione al vantaggio militare previsto da un attacco a un obiettivo bellico.[19] Tale principio risulta essere ampiamente riconosciuto sia dagli Stati che dai tribunali internazionali, così come dalla NATO, che durante la campagna di bombardamenti in Jugoslavia nel 1999 ha preso in considerazione i potenziali danni collaterali a civili, infrastrutture e ambiente nella determinazione dei propri obiettivi militari.[20]

Estensione dell’applicazione degli accordi ambientali durante i conflitti armati

La questione della possibile continuità degli obblighi vigenti in tempo di pace anche durante i conflitti armati rimane ampiamente dibattuta fra gli studiosi. È tuttavia emerso un consenso generale a proposito del fatto che gli scontri militari non si traducono automaticamente nella cessazione dei trattati in vigore in tempo di pace.[21] Per quanto riguarda la protezione dell’ambiente, la comunità internazionale ha fatto pressione per l’applicazione degli obblighi di diritto internazionale dell’ambiente in tempo di pace anche nel contesto bellico a seguito delle disastrose conseguenze sugli ecosistemi alimentate dalle operazioni della guerra del Golfo del 1991.[22] 
Tuttavia, per quanto riguarda l’applicabilità dei trattati ambientali in caso di conflitto armato, essi tacciono sulla questione.[23] Ciononostante, la grande maggioranza degli studiosi di diritto sostiene la loro validità in quanto essi si configurano come strumenti di protezione di aree al di fuori della giurisdizione nazionale e di beni comuni a beneficio della comunità internazionale nel suo insieme, piuttosto che di uno Stato specifico.  Di conseguenza, malgrado il perdurare di un conflitto armato, la cooperazione internazionale necessaria al raggiungimento del comune obiettivo della protezione ambientale rimane la finalità primaria degli Stati parte, delineando dunque l’estensione dell’applicabilità degli accordi ambientali multilaterali anche in un contesto di ostilità militari. [24]


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Note

[1] United Nations Environment Programme, Protecting the Environment During Armed Conflict: an inventory and analysis of international law, 2009, pp. 4-8. Disponibile al link: https://postconflict.unep.ch/publications/int_law.pdf (ultimo accesso 14.12.21).
[2] Ivi, p. 9.
[3] U. Grozio, De jure belli ac pacis, libri tres, Amsterdam 1735, capitolo 4, pp. 15-16.
[4] Kirchner, Environmental protection in time of armed conflict, European Environmental Law Review, ottobre 2020, p. 266.
[5] Convention on the prohibition of military or any  other hostile use of environmental modification technique, New York, 10 December 1976. Disponibile al link: https://treaties.un.org/doc/Treaties/1978/10/19781005%2000-39%20AM/Ch_XXVI_01p.pdf (ultimo accesso 14.12.21).
[6] Protocol Additional to the Geneva Conventions of 12 August 1949, and relating to the Protection of Victims of International Armed Conflicts (Protocol I), 8 giugno 1977. Disponibile al link: https://ihl-databases.icrc.org/ihl/INTRO/470 (ultimo accesso 14.12.21).
[7] Security Council resolution 540 on the situation between the Islamic Republic of Iran and Iraq, S_RES_540(1983), 31 ottobre 1983. Disponibile al link: https://digitallibrary.un.org/record/61392 (ultimo accesso 14.12.21).
[8] UNEP, op. cit., pp. 4-8.
[9] Hague Convention (IV) Respecting the Laws and Customs of War on Land (aperta alla firma il 18 ottobre 1907, entrata in vigore il 26 gennaio 1910).
[10] Ivi, art. 23(g).
[11] L. Low and D. Hodgkinson, Compensation for Wartime Environmental Damage: Chal- lenges to International Law after the Gulf War, 1995, pp. 405 – 438. See also: Schwabach, Envionmental Damage Resulting from the NATO Military Action against Yugoslavia, 2000, pp. 117- 124.
[12] C. Stannard, Legal Protection of the Environment in Wartime, 1992. pp. 373 – 375.
[13] Hulme, Environmental protection in armed conflict. In: Fitzmaurice, Ong, Merkouris, Research Handbook on International Environmental law, Celtenham, UK, Edward Elgar Publishing, 2010.
[14] Statute of the International Criminal Court, aperta alla firma il  17 Luglio 1998, entrata in vigore il 1 Luglio 2002, art. 8.
[15] Adriansyah, The adequacy of international legal obligations for environmental protection during armed conflict, Indonesia Law Review, 3(1), January – April 2013, p. 70.
[16] Trial of Wilhelm List and Others (The Hostages Trial); Case No. 47. In: The United Nations War Crimes Commission Law Reports of Trials of Major War Criminals, Vol. VIII, His Majesty’s Stationary Office, London, 1949, 34 – 68.
[17] Adriansyah, op. cit., p. 71.
[18] Kirchner, op. cit., p. 269.
[19] J.M.Henckaerts, L. Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law, Volume I, Rules, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, p. 147.
[20] VojinJoksimovich, Militarism and Ecology: NATO Ecocide in Serbia, 2000, 11(4) Mediterranean Quarterly, pp. 140- 142.
[21] Adriansyah, op. cit., p. 77.
[22] J. Goldblat, Legal Protection of the Environment against the Effects of Military Activities, 1991, 22, Sec. Dialogue, p. 399.
[23] Kirchner, op. cit., p. 266.
[24] Adriansyah, op. cit., p. 84.


Foto copertina: U.S. Navy Petty Officer 3rd Class Anthony Constantinidis, a medic with the Khost Provincial Reconstruction Team, secures a landing zone for a UH-60 Black Hawk helicopter during an air assault extraction in Spera, Afghanistan, on Nov. 16, 2009. Members of the Khost Provincial Reconstruction Team visited the district governor to assess progress being made in the area. DoD photo by Staff Sgt. Stephen J. Otero, U.S. Air Force. (Released)