Water grabbing: le guerre nascoste per l’acqua del XXI secolo.


Con Water Grabbing, Guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo, edito da Emi, gli autori Emanuele Bompan[1] e Marisosa Iannelli[2], ci conducono all’analisi di un fenomeno globale in espansione che rappresenta oggi, e che rappresenterà ancora di più nel prossimo futuro, la principale causa di conflitti: l’accaparramento delle acque. La pressione che stiamo esercitando sul nostro pianeta, compreso il complesso e delicato ciclo dell’acqua, può pervenire a pericolose soglie di saturazione.



Da un lato l’aumento della domanda causato da fattori demografici e dall’aumento dei consumi, dall’altro la riduzione dell’offerta dovuta all’aumento dell’inquinamento e dei dissesti idrici e così l'”oro blu” sta diventando un bene molto prezioso: entro il 2030 una persona su due al mondo vivrà in zone ad elevato stress idrico.

Il libro parte proprio dalla geografia idrica del cambiamento climatico, delle zone del mondo dove gli effetti dei cambiamenti sono più evidenti. Viene affrontato il problema del Land grabbing strettamente correlato al Water grabbing con i casi dello Swaziland e dell’India.

Il rapporto sempre più stretto tra acqua e produzione energetica: dalla costruzione di dighe all’utilizzo di energie non convenzionali come le sabbie bituminose.

Le guerre per l’acqua sono in tutto il mondo: dalla Valle della Beka’a al Sud Sudan fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni. Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan alle tensioni sul fiume Mekong.

Il diritto all’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari sancito dall’Onu sembra non essere tutelato. Nel mondo si va verso un continuo braccio di ferro tra desiderio di acqua pubblica e voglia delle grandi società di massimizzare i profitti attraverso le privatizzazioni.

 Water Grabbing è un faro che illumina un problema che rappresenta una bomba ad orologeria.

Dott. Bompan, cosa s’intende per water grabbing?

Con l’espressione neologistica water grabbing, «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni in cui attori potenti, (Stati, imprese, società private), sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi che sono depredati. Gli scopi possono essere finanziari, economici, politici o anche militari. Gli effetti dell’accaparramento sono devastanti. È un fenomeno che spesso si associa al land grabbing, cioè all’accaparramento delle terre.

Stress idrico e water grabbing

Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario globale che vede un aumento fortissimo della domanda di acqua dovuto principalmente a due fattori:

  • L’aumento della popolazione;
  • All’aumento di consumi pro capite.

Ci sono quindi parti del pianeta dove si consuma sempre di più: basti vedere cosa avviene nelle nuove economie (India, Sud-Est asiatico, Sud America). Dall’altro lato, abbiamo una riduzione dell’offerta dell’acqua a causa di inquinamento oppure a fenomeni collegati al cambiamento climatico (siccità, bombe d’acqua, scioglimento dei ghiacci).

Emanuele Bompan è un giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. Vive tra Italia e Stati Uniti. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare.

Queste situazioni producono un aumento dello stress idrico che in alcuni casi è molto acuito, e dove i prelievi alti accelerano processi di accaparramento idrico.

L’Italia nelle ultime settimane ha assistito a fenomeni climatici di una certa importanza con conseguenze abbastanza gravi. Nel libro si fa riferimento agli effetti dei cambiamenti climatici sulla vita dei cittadini, ma cosa dovrebbe fare un paese per arginare concretamente il c.d. cambiamento climatico’

Uno Stato dovrebbe inserire come precondizione dello sviluppo economico le politiche di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici, cercare di ripensare ad una economia che sia prospera, ma anche attenta a favorire una diminuzione delle emissioni e che vada a mettere in sicurezza il patrimonio civile e culturale, ma anche militare. L’Italia ad esempio ha visto un aumento della temperatura di 1,5° e abbiamo già superato la soglia di sicurezza posta dagli scienziati a livello globale, quindi bisogna agire con rapidità e competenza sia a livello politico che amministrativo, ma anche giuridico per attuare i cambiamenti necessari.

Un aspetto importante del libro è l’approfondimento del rapporto tra energia e acqua, cioè l’acqua utilizzata per produrre energia. A tal proposito si fa riferimento alle energie non convenzionali come le sabbie bituminose. Quali sono le criticità?

L’acqua nel settore energetico è impiegata principalmente in quattro campi di produzione: quello idroelettrico, attraverso la realizzazione di dighe a bacino o run-of-river (ad acqua fluente); quello del carbone, sia nelle centrali termoelettriche sia nelle miniere; quello nucleare; e infine quello degli idrocarburi convenzionali e non convenzionali, come lo shale gas, il gas di scisto o le sabbie bituminose, un mix di sabbia e petrolio che richiede immense quantità di acqua o vapore per essere estratto e lavorato. Le sabbie bituminose sono solo uno dei tanti prodotti della gamma non convenzionale di combustibili fossili, che include parecchi tipi di greggio: tight oil, petrolio da scisto, scisti bituminosi. Tutti hanno una caratteristica in comune: indicano petrolio difficilmente estraibile, che richiede quasi sempre l’uso consistente di acqua, sabbia e agenti chimici per l’estrazione e la lavorazione. Queste lavorazioni sono molto inquinanti.

Da un punto di vista giuridico esiste un modo per porre dei limiti di natura ambientale a questo tipo di utilizzo?

Per le sabbie bituminose da anni esistono movimenti, in particolare negli Stati Uniti, che si oppongono alla realizzazione di grandi oleodotti, e in alcuni casi riescono anche a bloccare queste opere, come è successo per il Dakota Access Pipeline (Dapl) grazie al supporto anche di gruppi religiosi, nativi americani.

VI Parliamo di dighe. Nel libro si fa riferimento a ciò che è accaduto in Etiopia con la costruzione della diga nella valle dell’Omo.

Con una crescita economica vicina al 10%, fortemente sostenuta dalla Cina, e una popolazione di oltre 100 milioni di persone, l’Etiopia punta a diventare un paese di nuova industrializzazione, transitando da un’economia fortemente rurale a una di industria e servizi. Un obiettivo ambizioso ma raggiungibile, fortemente sostenuto dall’ex primo ministro Hailemariam Desalegn, successore di Meles Zenawi, colui che per primo vide nell’idroelettrico il futuro dello sviluppo del paese. La diga, inaugurata il 17 dicembre 2016, fa parte di un gruppo a cascata di cinque dighe, di cui quattro sul fiume Omo, due già in funzione (Gilgel Gibe I e Gibe II, 420 MW), una in fase di costruzione, Gibe IV (1.472 megawatt), e una pianificata, Gibe V (560 MW), tutte realizzate dal costruttore italiano Salini Impregilo. Ma, se da un lato la strategia idroelettrica etiope sosterrà lo sviluppo della nona economia africana, dall’altro non mancano le controversie.

La Salini Impregilo ha costruito la diga su commissione del governo etiope, che però secondo molti esperti non ha tenuto conto dell’impatto ambientale e sociale. La trasformazione del regime fluviale ha portato allo stop delle esondazioni alluvionali, fondamentali per l’agricoltura tradizionale, e il blocco degli elementi nutrienti portati dalla corrente dell’Omo, ha reso meno fertili i terreni. Mentre la realizzazione di una serie di megaprogetti di agrobusiness sta trasformando il territorio e la cultura delle comunità etniche locali, costringendole in alcuni casi al trasferimento. La diga ha inoltre ridotto l’apporto di acqua al lago Turkana, tra l’altro già fortemente esposto all’aumento delle temperature, con conseguente riduzione del volume d’acqua. Da un punto di vista sociale, il progetto non ha compensato adeguatamente le tante popolazioni locali, costrette a migrazioni forzate che hanno generato conflitti tribali. In altri casi ci sono state delle violazioni documentate di abusi perpetrati dall’esercito etiope sulle comunità locali. Cosa si può imputare alla Salini? Da un punto legale, nulla. Da un punto di vista morale/etico, di aver preso un incarico da un soggetto che non rispetta i diritti delle persone e dell’ambiente.

Si parla spesso di nuove guerre per l’acqua. Quali sono oggi i punti di maggiore criticità nel mondo?

La maggior parte nelle vicinanze dei maggiori corsi d’acqua transfrontalieri, soprattutto in zone dove non sono stati firmati accordi di gestione delle acque, come ad esempio hanno fatto India e Pakistan con per il fiume Indo[3]. In altre aree invece non sono stati firmati trattati, e fiumi come il Mekong, il Nilo e anche il Tigri e l’Eufrate, rimangono fortemente esposti a tensioni geopolitiche proprio perché mancano accordi di gestione. Purtroppo sono in aumento situazioni potenzialmente conflittuali, ad esempio il Brahmaputra è un fiume che nasce in Tibet, scorre verso la Cina prima di attraversare il Bangladesh e sfociare in India, e si dibatte sul diritto della Cina di costruire dighe o legate allo sfruttamento dei volumi d’acqua.

Dott.ssa Iannelli, al 2050, secondo i calcoli del professor Norman Myers dell’Università di Oxford, i profughi legati agli effetti del cambiamento climatico potranno essere oltre 150 milioni nel mondo. Attualmente, circa 1,6 miliardi di persone, quasi una su quattro, risiedono in paesi con poca disponibilità di acqua, e le previsioni indicano che in un ventennio la cifra potrebbe raddoppiare. Quali saranno le aree più esposte alle migrazioni legate all’acqua e ai suoi conflitti e se da un punto di vista giuridico l’Europa sta facendo qualche passo avanti nel riconoscimento dello status di migrante ambientale.

Le aree che maggiormente saranno interessate da questo fenomeno sono tutte quelle che hanno uno sbocco sul mare, ma volendo essere più precisi il continente che subirà maggiormente questo fenomeno è l’Asia. Sicuramente a causa dell’aumento della popolazione e quindi dei consumi, ma anche a causa come detto dell’aumento del livello del mare. Le città costiere vivranno situazioni molto critiche, ma non solo in Asia, basti vedere cosa è successo a Venezia. Da un punto di vista delle migrazioni sono strettamente collegate agli effetti dei cambiamenti climatici. Inizialmente le migrazioni avverranno all’interno del proprio continente, l’Africa è un esempio con quasi 23 milioni di migranti interni, e poi verso l’esterno. Da un punto di vista giuridico il profugo ambientale non esiste. È chiaro che le condizioni climatiche e i fattori ambientali sono e diventeranno sempre più un fattore determinante per le migrazioni. La difficoltà maggiore sta nel dover poi riconoscere e distinguere un migrante “climatico” da uno “economico” quando magari le due cause sono strettamente correlate. Quindi come, e se, è corretto categorizzare. Pensiamo a ciò che sta avvenendo nel Corno d’Africa sia da un punto di vista di scarsità idrica che in termini di cambiamenti climatici (il Kenya è passato da fasi di siccità ad alluvioni) e l’impatto sulle economie locali I flussi migratori che ne seguono vanno considerati come migranti climatici o economici?

Con la risoluzione 64/292, L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “riconosce che il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari è un diritto umano essenziale per il pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”. Dietro proposta del Presidente della Bolivia, Evo Morales. Così recita il paragrafo principale della Risoluzione 64/292 delle Nazioni Unite, approvata dall’Assemblea Generale ONU il 28 luglio 2010 con 122 paesi a favore e 41 astenuti. Nessuno contrario. Ma perché questo diritto oggi non è tutelato?

A livello etico la maggior parte dei paesi non discutono, anzi, hanno aderito alla risoluzione del 2010 poi rivista nel 2015. Da un punto di vista pratico, cioè su come concretizzare nei singoli paesi, iniziano i problemi. L’acqua nella maggior parte dei casi è considerata un servizio e non tutti, a livello politico e governativo, sono d’accordo sul fatto che dalla gestione delle risorse idriche (al pari dell’energia elettrica o della gestione dei rifiuti) non si possa trarne un guadagno. Ed è lì che si crea il “buco” giuridico. Le risoluzioni non sono vincolanti e quindi perdono di efficacia.

Marirosa Iannelli presidente del Water Grabbing Observatory , progettista ambientale specializzata in cooperazione internazionale, water management e comunicazione; svolge un dottorato di ricerca Europeo con un progetto su cambiamenti climatici e governance delle risorse tra Africa e Sudamerica con un focus sul diritto umano all’acqua; segue come esperta le Conferenze ONU e il lavoro della Commissione Europea su ambiente e desertificazione. E’ co-autrice di Water Grabbing, le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo e del nuovo Atlante geopolitico dell’Acqua. Attivista, femminista e ciclista, appassionata di fotografia e arti visive, da anni gira il mondo per lavoro e per osservarlo attraverso la luce che passa nel diaframma della fotocamera.

Ad esempio la differenza tra l’accordo di Parigi e le risoluzioni non vincolanti, è che nel primo caso grazie anche alle Conferenze sul clima si va verso un punto dove i paesi dovranno poi essere vincolati alle decisioni prese, mentre con le risoluzioni Onu questo non può avvenire. Finché non si rendono vincolanti le decisioni prese nelle conferenze sull’ambiente, si faranno concretamente pochi passi avanti. Esistono alcuni casi positivi della gestione dell’acqua in rispetto alla risoluzione Onu. La Slovenia nel 2016[4] ha inserito nella propria Costituzione la gestione pubblica dei servizi legati all’acqua ed ha garantito un quantitativo d’acqua liberamente fruibile e gestendo la tariffa di pagamento anche in base alle fasce di reddito della popolazione. Sono state inoltre lanciate campagne di sensibilizzazione contro lo spreco.

E in Italia?

In Italia abbiamo avuto un referendum che non si è concretizzato. Stiamo ancora discutendo la proposta di legge Daga sulle disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque[5] che però al momento è in una fase di stallo. In Italia abbiamo una gestione pubblico–privata con le c.d. PPP in cui il ruolo del privato è ancora preponderante. Esiste poi un grande problema legato alle infrastrutture idriche: ad ottobre 2019 il report Istat sullo stato delle acque[6] si confermano i dati sulle perdite strutturali con il 41% di infrastrutture bucate, con un aumento del 10% tra il 2012 e il 2016. E ciò non dovrebbe verificarsi vista la natura privata della gestione del servizio.

Dal 1948 al 2017 le Nazioni Unite hanno registrato 37 incidenti politici che hanno portato a conflitti aperti legati all’acqua, mentre nello stesso periodo sono stati stipulati tra le parti 295 accordi internazionali multilaterali sulla gestione idrica, garantendo la pace e la collaborazione. Quali sono i principali strumenti di diritto internazionale per favorire gli scambi tra gli stati a tutela delle risorse idriche condivise?

Le risoluzioni, anche se non vincolanti, vengono richiamate soprattutto per i paesi che le hanno sottoscritte per la risoluzione di eventuali conflitti. La Convenzione sulla protezione e l’utilizzo dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali[7] e la Convenzione sull’utilizzo dei corsi d’acqua internazionali per scopi diversi dalla navigazione[8] , sono due convenzioni vincolanti ma che sono state firmate e ratificate da non tutti i paesi. In Italia, c’è stato un problema di gestione di risorse tra le regioni del Veneto e del Trentino in una situazione di emergenza idrica. Da un lato l’utilizzo dell’acqua nel campo agricolo e dall’altro l’utilizzo nel campo turistico, e li si è fatto riferimento alla Convenzione sulle acque transfrontaliere dando quindi priorità all’acqua per uso agricolo.  

Si può parlare di emergenza climatica?

Esistono due scuole di pensiero, chi è favorevole e chi no. Da un punto di vista “mediatico” si, da un punto di vista tecnico-scientifico, seppur assistiamo all’intensificarsi di fenomeni climatici violenti non vuol dire esiste un‘emergenza. La situazione è preoccupante. I modelli di previsione ci dicono che da qui al 2050/2100 effettivamente il clima sarà diverso con un aumento delle temperature e tutto ciò che ne consegue. Secondo Silvio Gualdi, Presidente SISC – Società Italiana di Scienze del Clima, non è possibile stabilire l’impatto di questo aumento delle temperature. Cosa fare? I paesi più grandi e storicamente più inquinanti dovrebbero impegnarsi a contenere le emissioni di CO2, pensare ad una strategia energetica sostenibile, con piani di adattamento e prevenzione dei cambiamenti climatici.


Note

[1] Emanuele Bompan è un giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. Vive tra Italia e Stati Uniti. E’ Direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha un dottorato in geografia e collabora con ministeri, fondazioni e think-tank. Offre consulenza a start-up green e incubatori specializzati in clean-tech. Ha scritto l’Atlante geopolitico dell’Acqua (2019, HOEPLI), “Che cosa è l’economia circolare” (ed. Ambiente, 2017), uscito anche in edizione inglese What is the Circular Economy, e Il mondo dopo Parigi.L’accordo sul clima visto dall’Italia: prospettive, criticità e opportunità (ed. Ambiente, 2016). Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista. http://www.emanuelebompan.it/

[2] Marirosa Iannelli è specializzata in cooperazione internazionale e water management, è ricercatrice presso la London School of Economics con un progetto su cambiamenti climatici e governance delle risorse tra Africa e Sudamerica. Segue come esperta le Conferenze Onu e il lavoro della Commissione europea su ambiente e desertificazione. Collabora con l’ong Cospe e altre organizzazioni come progettista ambientale. Coordinatrice del Water Grabbing Observatory https://www.watergrabbing.com/chi-siamo/.

[3] Il trattato delle acque dell’Indo (Indus Water Treaty – IWT); è un trattato siglato a Karachi il 19 settembre 1960 dal primo ministro indiano Jawaharlal Nehru e dal presidente pakistano Ayyub Khan. In base a questo accordo, il controllo delle acque dei tre fiumi “orientali” dell’India (il Beas, il Ravi e il Sutlej) venne dato all’India, mentre il controllo dei tre fiumi “occidentali” dell’India (l’Indo, il Chenab e il Jhelum) venne dato al Pakistan.

[4] Il Parlamento della Repubblica di Slovenia con legge costituzionale 17 novembre 2016, n. 001-02/15-4/17 (UZ70a) ha introdotto nella Costituzione l’art. 70.a rubricato “Diritto all’acqua potabile”. Il processo di produzione della norma costituzionale è stata innescata dall’iniziativa popolare di raccolta di firme con il motto “Insapore, incolore e senza proprietari: l’acqua è libertà”. L’iniziativa è stata altresì supportata da un numero considerevole di enti locali. La previsione costituzionale del nuovo articolo 70.a, sull’acqua è incentrata nel limitare il potere politico di decisione in sede di produzione normativa ordinaria e prevede una serie di garanzie che ora assumono rango e vincolo costituzionale come: a) la previsione che l’acqua e l’accesso ad essa sono un diritto fondamentale; b) la gestione pubblica della fornitura dell’acqua potabile e c) la limitazione della commerciabilità. https://arts.units.it/handle/11368/2889657#:~:targetText=Il%20Parlamento%20della%20Repubblica%20di,Diritto%20all’acqua%20potabile%E2%80%9D.

[5] “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” https://www.camera.it/leg18/126?tab=2&leg=18&idDocumento=52&sede=&tipo=

[6] https://www.istat.it/it/archivio/acqua

[7] (Convenzione di Helsinki, o Convenzione Acque) è stata adottata il 17 marzo 1992 a Helsinki da 26 Paesi Membri della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e dalla Comunità Europea, ed è entrata in vigore il 6 ottobre 1996. L’obiettivo della Convenzione Acque è la promozione della la cooperazione tra i Paesi per la prevenzione e il controllo dell’inquinamento dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali e per l’uso sostenibile delle risorse idriche. L’Italia ha ratificato la Convenzione il 23 maggio 1996 https://www.unece.org/env/water.html

[8] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 maggio 1997


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