Chi è Vladimir Putin lo “zar” della Russia moderna? Le sue azione sono dettate dalla follia o è frutto di una strategia ben precisa? Per comprendere le azioni del presidente russo, Emanuel Pietrobon ci fornisce un ritratto chiaro di cosa c’è nella “Testa dello Zar”.
Vladimir Vladimirovič Putin nasce il 7 ottobre del 1952 a San Pietroburgo, all’epoca ancora Leningrado, in un piccolo monolocale di un palazzo popolare del vicolo Baskov. La sua infanzia, come quella di tanti ragazzi russi, è segnata tra la vita nella Kommunalka e quella tra la strada, dove la criminalità giovanile era un fenomeno diffusissimo. Era l’Urss post-sovietica descritta dalle canzoni del cantautore Vladimir Vysockij, che Vladimir Putin imparò le leggi della strada per poter sopravvivere.
E forse sarà ancora quel codice di sopravvivenza appreso tra le strada della vecchia Pietroburgo ad ispirare le azioni del Presidente durante il suo mandato che verrà ricordato anche per la recente guerra in Ucraina. Emanuel Pietrobon con “Nella testa dello Zar” (Acquista qui) edito da Historica e con prefazione di Fausto Biloslavo, analizza il pensiero del presidente russo Putin.
Intervista con l’autore
Vladimir Putin è stato un uomo del KGB, esperto di dezinformatsiya. Quanto le misure attive sono determinanti nell’azione di Mosca?
“Erano chiamate misure attive le tecniche e le tattiche di guerra non convenzionale e sovversione all’estero impiegate dall’Unione Sovietica sin dalla sua nascita. Un mix di guerriglia e psicologia, basato sulla logica del massimo profitto col minimo sforzo, utilizzato per esportare gli ideali della Rivoluzione nel mondo. Ma non solo: i russi, per natura pragmatici, impiegavano le misure attive anche per disinformare, dividere, polarizzare e radicalizzare le società degli stati rivali laddove sapevano che le probabilità di un cambio di regime erano basse. E la storia ha dato ragione alle misure attive: destabilizzare, molte volte, conviene molto di più. Impantani il nemico in casa sua, costringendolo a ritirarsi da altri luoghi.
Putin, che non era uno 007 qualunque – ma un addetto, sembra, alle misure attive in Germania Ovest –, è cresciuto con due genitori: disinformazione (дезинформация) e inganno (маскиро́вка). Attingendo al legato sovietico ha ridato centralità al FSB, erede del KGB, e alle misure attive quale strumento della politica estera del Cremlino. Un déjà-vu, in molti casi, economico ma efficiente. Negli Stati Uniti ad esempio, la Russia è tornata ad alimentare l’odio interetnico tra bianchi e afroamericani, proprio come ai tempi della Guerra fredda – quando i sovietici supportavano la propaganda delle Pantere Nere e anelavano ad una guerra razziale (operazione Pandora) –, e attraverso eserciti di troll dell’Internet Research Agency sta spargendo bufale, semi-verità e post-verità radicalizzanti sia dirette ai neri – notevole l’appoggio a Black Lives Matter – sia ai bianchi – i suprematisti. E che dire del cospirazionismo, utile a instillare dubbio e diffidenza: ieri le misure attive ebbero successo nel convincere parte del mondo che l’HIV/AIDS era un’arma creata in laboratorio dagli Stati Uniti per sterminare minoranze sessuali e afroamericani (operazione INFEKTION), oggi la disinformazione diretta ai vaccino-scettici durante la pandemia di COVID19.”
Nel suo libro fa riferimento all’anarchia ciclica insita nel DNA russo, ci dobbiamo aspettare una situazione simile per il dopo-Putin?
“Stalin soleva dire che “i russi hanno bisogno di uno zar” e vi sono tanti detti, in Russia, riguardanti l’importanza di un uomo forte, un uomo della provvidenza, a guidare la nazione. C’è del vero in queste affermazioni, che è alla base, tra l’altro, dell’impossibilità di impiantare un modello liberal-democratico all’occidentale nella Federazione: imploderebbe nottetempo. Non lo sostengo io, ma la storia: si guardi al fallimento del progetto gorbacioviano e alla quasi-guerra civile perenne dell’era eltsiniana.
La Russia non può e non potrà avere che un sistema federale baricentrato sul governo centrale, perché è l’unico modo che la classe dirigente ha per evitare e/o per contrastare le storiche e dure a morire pressioni centrifughe provenienti da tutto ciò che giace a destra e a sud di Mosca, ossia regione del Volga, Ciscaucasia, Siberia ed Estremo Oriente. Tre quarti della Federazione sono a rischio implosione, e non è un’esagerazione, essendoci ancora oggi, forse più di ieri, partiti politici, movimenti sociali e attori civili aventi quali focus o un’autonomia ambigua o una secessione conclamata. Serve, di nuovo, un centro forte per tenere insieme le periferie.
Putin non ha ancora trovato un successore, qualcuno che sia carismatico, lungimirante e capace abbastanza da mantenere insieme quell’universo multinazionale e multireligioso che è la Russia, e questo è il motivo principale che lo ha spinto a restare alla presidenza. Contrariamente al pensiero comune, che dipinge Putin come un anziano logorato dal potere che non vuole lasciare né lo scettro né il trono, il presidente russo avrebbe voluto fare un passo indietro già anni or sono ed è rimasto per a) l’aggravamento della competizione tra grandi potenze, emblematizzato dalla questione ucraina; e b) la delusione ricevuta da Dmitrij Medvedev, l’uomo sul quale aveva scommesso per il dopo-Putin.”
Parliamo di oligarchi, ci spiega il rapporto di Putin con i magnati degli affari?
“È un rapporto complicato, di amore-odio, dove si intersecano personalismo e interesse nazionale e sul quale aleggia lo spettro dei sette boiardi, la paura, cioè, che l’oligarchia possa agire in combutta con forze straniere allo scopo di depredare e svendere la Russia – come accaduto durante l’era Eltsin. È vero che gli oligarchi sono un elemento essenziale del sistema di potere putiniano, che oggi supportano dopo averlo inizialmente contrastato – agli albori del Duemila –, ma contestualizziamo: i grandi privati sono un potere economico che alimenta e plasma il potere politico, e che solo talvolta viene sottomesso da quest’ultimo, tanto nello spazio postsovietico quanto, se vogliamo dirla tutta, in tutto il mondo. Con la differenza che, per ragioni ideologiche, nel resto del mondo li chiamiamo oligarchi e che in Occidente li chiamiamo grandi imprenditori. Ma cosa distingue un Abramovich da un Rockefeller?
Nel suo libro fa riferimento alla posizione di Putin verso la religione islamica considerata come “elemento fondamentale della costituzione culturale russa”. Convenienza o reale convinzione?
“Convenienza, chiaramente. Putin è uno statista molto pragmatico ed erudito, forgiato dall’esperienza al KGB, dalla sconfitta dell’Unione Sovietica nella Guerra fredda e, in generale, dalla storia. Parliamo di un uomo con una preparazione storico-culturale di altissimo livello, un po’ come tutti i politici della sua generazione, che ha sempre visto nello studio del passato la chiave per comprendere il presente e anticipare il futuro. E il passato gli ha suggerito di non seguire le orme dei suoi predecessori, da Caterina la Grande a Boris Eltsin, perché trascurare, o peggio perseguitare l’islam, significa stuzzicare un leviatano in dormiveglia. L’islam, sotto Putin, ha cessato di essere un elemento alieno. E, aggiungo, si è trattato di una decisione storicamente giusta: i primi contatti tra russosfera e mondo islamico risalgono all’età della Bulgaria del Volga – settimo secolo dopo Cristo –, e da allora l’interazione è stata continua. Amicandosi gli islamici di Russia, oltre ad addormentare o comunque ridurre le pulsioni estremistiche provenienti da alcuni oblast, Putin ha ottenuto altri due risultati: ha trovato un nuovo alleato nella nazionalizzazione delle masse in senso conservatore e si è tolto da dosso il ricordo infamante dei massacri compiuti durante la seconda guerra cecena, vissuta dal mondo islamico come parte di uno scontro di civiltà. Ripristinati i rapporti con le potenze dell’islamosfera, e sedati gli umori radicali all’interno della Federazione, Putin ha potuto inaugurare una lungimirante intesa georeligiosa con orizzonte spaziotemporale la transizione multipolare.”
Da molti osservatori occidentali, Putin viene considerato come “imprevedibile” e le sue azioni spesso valutate come conseguenza di una cattivo stato di salute fisica e mentale. Eppure gli obiettivi erano chiari fin dal 1999 con la stesura del manifesto dal titolo “La Russia alla svolta del Millennio”.
“Il problema dell’Occidente è lo stesso di sempre: l’incapacità di analizzare obiettivamente il mondo, che viene continuamente idealizzato, orientalizzato e stereotipizzato. Per molti analisti, come per molti politici – e la stessa popolazione –, tutto ciò che non è Occidente appare come un’enorme distesa esotica alla cui entrata si può trovare scritto Hic sunt leones. La Russia non fa eccezione. Il Partito Comunista Cinese organizza delle sedute di studio sul passato delle altre civiltà per i suoi membri. Una di queste, giusto per dare l’idea di cosa si sta parlando, fu dedicata all’analisi delle guerre civili inglesi del Seicento. I nostri partiti, ma anche i nostri accademici, fanno qualcosa di simile? La risposta è no. Questo è il motivo per cui si sbagliano le analisi su Putin e per cui si fatica, sempre di più, a capire cosa sta avvenendo nel sistema internazionale.”
Nelle sue precedenti pubblicazioni ha analizzato la figura di Orbán e di Zelensky, ora ci fa un ritratto di Putin. Ci sono dei punti di contatto tra questi tre personaggi?
“Ci sono sicuramente dei punti di contatto tra Orbán e Putin, a partire da questo: non sono i classici politici macchiettistici a cui ci ha abituato la contemporaneità, ma due statisti che negli anni han dato prova di possedere varie qualità machiavelliche, in primis un pragmatismo ai limiti del cinismo. Sulla prudenza: c’è anche quella, ma Putin l’ha persa invadendo l’Ucraina.
Orbán e Putin sono due prodotti storici, figli legittimi dei loro contesti nazionali, che hanno cogliere i segnali dei tempi e capitalizzare sentimenti nostalgici e revanscistici presenti nelle loro società: il trauma del Trianon nel primo caso, l’ignominiosa auto-sconfitta nella guerra fredda nel secondo.
Non vedo molte somiglianze fra Putin e Zelenskij, a parte il tentativo di costruire un rapporto di immedesimazione carismatica con le masse, che, però, avviene in modi radicalmente diversi
Cosa c’è nella testa dello Zar?
“Lo Zar è stato eletto dallo stato profondo nel lontano 1999 per evitare che la Russia rivivesse un nuovo Periodo dei torbidi e, se conseguito tale obiettivo, per riaprire un conto che gli Stati Uniti pensavano di aver chiuso qualche anno prima: la Guerra fredda. Putin non è alla ricerca di egemonia globale. Demografia, economia e tecnologia, ma anche cultura – manca una rivoluzione da esportare –, non consentono alla Russia di seguire le orme dell’Unione Sovietica. Ma un fenomeno lo ha convinto a tentare il tutto per tutto: mentre la Russia si risollevava lentamente dalla guerra civile, ritrovando poco a poco un’identità, l’Occidente, uscito vincitore dalla guerra fredda, provava a sconfiggersi da solo. Decadimento qualitativo della classe dirigente. Guerre culturali in casa. Guerre infinite o controproducenti all’estero. Polarizzazione sociale. Tensioni interrazziali. Nel declino civilizzazionale dell’Occidente Putin ha intravisto l’opportunità di prendersi una rivincita, di riscrivere – in parte – il finale della guerra fredda. Non si possono capire né l’Ucraina né tutti i processi associati – incluso il rovesciamento del paradigmatico West vs the Rest, ora diventato the Rest vs the West –, ignorando il ruolo da noi stessi giocato negli accadimenti del post-guerra fredda. Chi vincerà questa Chi vincerà questa partita? La battaglia è in pieno svolgimento.”
Foto copertina: Nella testa dello Zar