La campagna di bombardamenti della NATO Operation Allied Force ha provocato gravi danni all’ambiente nella Repubblica Federale di Jugoslavia, in particolare al complesso industriale di Pančevo e al sistema idrico del Danubio. Tuttavia, la coalizione dei paesi della NATO non è stata ritenuta responsabile di alcuna violazione delle disposizioni del diritto internazionale umanitario in materia di protezione ambientale.
Gli impatti ambientali della campagna di bombardamento della NATO in Ex Jugoslavia
A seguito del fallimento del governo Jugoslavo di concordare e siglare l’accordo di pace redatto dagli Americani relativo alla situazione in Kosovo,[1] il “conflitto interno a bassa intensità” nella Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ) si è rapidamente evoluto a livello internazionale a seguito del coinvolgimento dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO).[2] In particolare, il 24 marzo 1999 le forze NATO guidate dagli Stati Uniti si sono impegnate in un’azione militare contro la Jugoslavia attraverso una campagna di bombardamenti durata 78 giorni e divenuta celebre come “Operation Allied Force”.[3]
Tale operazione aerea su larga scala ebbe come target obiettivi strategici jugoslavi, inclusi complessi industriali e infrastrutture; tuttavia, in via incidentale sono stati prodotti danni significativi tanto all’ambiente naturale quanto a quello non naturale, così come impatti negativi a lungo termine sulla salute della popolazione civile locale.[4]
A differenza della guerra in Vietnam e della prima guerra del Golfo combattuta tra il 1990 e il 1991, in cui l’ambiente è risultato essere il bersaglio diretto e deliberato di attacchi armati, la campagna militare della NATO in RFJ e in particolare in Kosovo ha provocato danni ambientali solo in via collaterale. Di fatto, stabilimenti chimici, impianti energetici e, in generale, fabbriche vennero considerati obiettivi strategici dal punto di vista militare; tuttavia, gravi danni all’ambiente furono accertati in aree specifiche – o “punti caldi” – da esperti delle Nazioni Unite chiamati ad esaminare gli effetti della campagna Operation Allied Force della NATO in Jugoslavia nel 1999.[5] In particolare, le aree serbe di Novi Sad, Bor e Pančevo risultarono essere tra le città più danneggiate, tanto da essere inserite nel Rapporto Finale al Procuratore dal Comitato istituito per valutare la campagna di bombardamenti della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia.[6] Di fatto, il complesso industriale di 80.000 anime di Pančevo fu il teatro di bombardamenti a danno di un impianto petrolchimico, di una fabbrica di fertilizzanti e di una rilevante raffineria di petrolio, i quali provocarono la dispersione all’interno dell’atmosfera di sostanze chimiche tossiche fuoriuscenti dalle strutture danneggiate e a causa dei numerosi incendi che si susseguirono. Di conseguenza, a livello locale emerse una sincera apprensione a proposito dei possibili impatti negativi sulla salute umana e dei danni a lungo termine al suolo, alle acque sotterranee e alle colture.[7]
Similmente, timori analoghi riguardarono i potenziali danni ambientali collaterali sul sistema delle acque in seguito a consistenti attacchi aerei volti a colpire strutture industriali ubicate lungo il fiume Danubio. Sebbene non sia emersa alcuna evidenza di un’eventuale catastrofe ecologica a seguito dei bombardamenti NATO, il conflitto configurò un potenziale rischio sia per i civili in Jugoslavia che per le comunità bulgare e rumene a valle in termini di contaminazione di falde acquifere e popolazione marina.[8]
La NATO ha violato il diritto internazionale?
Nel 1999, la Repubblica Federale di Jugoslavia avviò un’azione giudiziaria dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) contro dieci Stati della NATO coinvolti nelle operazioni di bombardamento, inclusi Belgio, Germania, Canada, Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, il Regno Unito e, infine, Stati Uniti.[9] Di fatto, poiché la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia è limitata ai contenziosi tra Stati, la RFJ disponeva della sola possibilità di intentare una causa contro tutti i paesi coinvolti, e non direttamente contro la NATO. In particolare, la RFJ richiese alla Corte di dichiarare illegali gli attacchi aerei della NATO e di ordinare l’immediata cessazione dell’operazione.[10]
La Corte, tuttavia, archiviò il caso contro la Spagna e gli Stati Uniti in maniera immediata a causa della manifesta mancanza di giurisdizione sul caso; allo stesso modo, nel 2004 la Corte archiviò i casi concernenti gli ulteriori otto Stati della coalizione NATO per mancanza di giurisdizione prima facie. I paesi NATO, pertanto, non vennero ritenuti responsabili per le proprie azioni e per la mancanza di protezione diretta e indiretta dell’ambiente nel contesto delle operazioni di bombardamento durante il conflitto.[11]
Per quanto concerne il diritto internazionale consuetudinario, le azioni di bombardamento degli Stati NATO a Pančevo risultarono soggette ai principi di proporzionalità e necessità. In particolare, a differenza dell’impianto di fertilizzanti, la raffineria di petrolio e l’impianto petrolchimico vennero considerati obiettivi militari; tuttavia, a seguito delle dichiarazioni della NATO sull’importanza strategica del complesso industriale, non fu stata identificata alcuna violazione del principio di necessità militare nei confronti della petrolchimica e della raffineria. Al contrario, il danno causato dal bombardamento dell’impianto di fertilizzante fu ritenuto un mero danno collaterale.[12]
Per quanto riguarda la proporzionalità, la quantità significativa di inquinanti rilasciati fu da considerare alla luce del vantaggio militare previsto della NATO. Tuttavia, il Rapporto Finale al Procuratore del Comitato istituito per esaminare la campagna di bombardamenti della NATO contro la RFJ ritenne che il vantaggio militare della NATO fosse semplicemente “molto sostanziale”, senza però definirne con precisione il grado. A tal proposito, a causa della mancanza di conoscenza dell’esatto vantaggio militare atteso, il Comitato non raccomandò ulteriori indagini sulla questione.[13]
La decisione del Tribunale Penale Internazionale per l’Ex Jugoslavia sul caso Jugoslavia v. NATO (1999).
Parallelamente a ciò, mentre il conflitto era ancora in corso, la Jugoslavia decise di sollevare la questione degli illeciti ambientali compiuti durante il conflitto di fronte al Tribunale Penale Internazionale per l’Ex Jugoslavia (ICTY). In particolare, l’Ufficio del Procuratore istituì un comitato investigativo per valutare se le forze della NATO avessero commesso crimini di guerra durante il conflitto, compreso durante il bombardamento di Pančevo. Nel caso in questione, la Corte inizialmente esaminò se il danno soddisfacesse la soglia cumulativa di “diffusione, di lunga durata e gravità” prevista dagli articoli 35 e 55 del Protocollo addizionale (I) alle Convenzioni di Ginevra del 1977.[14]
In primo luogo, numerose segnalazioni rilevarono la diffusione di nubi tossiche in un’area di circa 15 Km2 per più di dieci giorni; inoltre, piogge acide sono state registrate sui territori circostanti. Allo stesso modo fu esaminata la questione dell’inquinamento idrico transfrontaliero, essendo il Danubio un corso d’acqua internazionale.
Ai sensi della valutazione della possibilità di un danno a lungo termine, nonostante la perdita di biodiversità documentata nelle aree bombardate e gli effetti negativi sulle colture, sul suolo, sulle acque sotterranee e sulla salute umana, il danno ambientale in esame non fu considerato al pari di una catastrofe naturale, negando quindi eventuali conseguenze ecologiche a lungo termine.[15]
In ultima analisi, in relazione al criterio di gravità, il Regional Environmental Centre (REC) riscontrò una quantità significativa di sostanze tossiche nelle acque, nel suolo e nell’atmosfera del complesso industriale di Pančevo, tra cui mercurio, propilene e acido cloridrico.[16] Ciononostante, formalmente non fu identificata alcuna catastrofe ecologica a danni del Danubio a seguito dei bombardamenti della NATO; inoltre, la mancanza di un preciso chiarimento dei parametri che definiscono un “danno grave” portò alla conclusione che i danni ambientali commessi durante la guerra non potevano ammontare alla severità prevista dal Protocollo addizionale (I) del 1977.[17]
In tale scenario, sulla base dei fatti e dei risultati forniti dal Regional Environmental Centre (REC) e dalla Task Force per i Balcani (BTF), i danni ambientali si configurarono solamente come diffusi, bensì non raggiunsero la soglia cumulativa di durata e gravità. Di conseguenza, gli Stati NATO che all’epoca già erano parte del Protocollo (ad esclusione di USA, Turchia e Francia, che non erano vincolati dal trattato) non risultarono essere in violazione degli articoli 35 e 55.
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Note
[1] Kirgis, F.L., ‘The Kosovo Situation and NATO Military Action’ (Marzo 1999) American Society of International Law Insights.
[2] O. Das, Environmental protection, Security and Armed Conflict. A Sustainable Development Perspective. Celtenham, UK; Northampton, MA, USA, Edward Elgar, 2013, p.162.
[3] M.K. Sinha, Protection of the Environment During Armed Conflicts: A Case Study of Kosovo, ISIL Year Book of International Humanitarian and Refugee Law, 2001, p. 1. Disponibile al link: http://www.worldlii.org/int/journals/ISILYBIHRL/2001/13.html (ultimo accesso 10.02.22).
[4] Council of Europe, Environmental Impact of the War in Yugoslavia on South-East Europe. Report by Committee on the Environment, Regional Planning and Local Authorities, Doc. 8925 (10 January 2001), para 18–42.
[5] ‘United States Department of Defense (DOD), Kosovo/Operation Allied Force After-Action Report, Report to Congress (Unclassified), 31 Gennaio 2000, p. xiv. Disponibile al link:https://ciaotest.cc.columbia.edu/casestudy/media/pap01_aar.pdf (ultimo accesso 10.02.22).
[6] ICTY, Final Report to the Prosecutor by the Committee Established to Review the NATO Bombing Campaign Against the Federal Republic of Yugoslavia. Disponibile al link: https://www.icty.org/en/press/final-report-prosecutor-committee-established-review-nato-bombing-campaign-against-federal (ultimo accesso 10.02.22).
[7] M.K. Sinha, op. cit., pp. 2-3.
[8] Ibid.
[9] International Court of Justice, Legality of the Use of Force (Yugoslavia v NATO States) (Provisional Measures) [1999] ICJ Rep 132. Disponibile al link: https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/114/14129.pdf (ultimo accesso 12.02.22).
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] ICTY, Final Report to the Prosecutor by the Committee Established to Review the NATO Bombing Campaign Against the Federal Republic of Yugoslavia, op. cit., para 23. Disponibile al link: https://www.icty.org/en/press/final-report-prosecutor-committee-established-review-nato-bombing-campaign-against-federal (ultimo accesso 10.02.22).
[13] Ivi, para 25.
[14] Additional Protocol (I) to the Geneva Conventions, 1977. Disponibile al link: https://ihl-databases.icrc.org/ihl/INTRO/470 (ultimo accesso 12.02.22).
[15] O.DAS, op. cit., p.168.
[16] Regional Environmental Center for Central and Eastern Europe (REC), Assessments of the Environmental Impact of Military Activity During the Yugoslavia Conflict: Preliminary Findings, 28 June 1999. Disponibile al link: https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/Assessment%20of%20the%20Environmental%20Impact%20of%20Military%20Activities.pdf (ultimo accesso 12.02.22).
[17] UNEP/UNCHS-(Habitat), The Kosovo Conflict: Consequences for theEnvironment & Human Settlements, 1999. Disponibile al link: https://wedocs.unep.org/handle/20.500.11822/8433 (ultimo accesso 12.02.22).
Foto copertina: Un addetto alla sicurezza indica che i serbatoi di una raffineria di petrolio in fiamme a Pancevo, a nord di Belgrado, in Serbia, il 18 aprile 1999.Foto: Srdjan Ilic/AP Operation Allied Force della NATO in Jugoslavia