Violate, mutilate, uccise: il caso degli stupri etnici in Ruanda


In Ruanda 29 anni fa il genocidio e gli stupri di massa delle donne tutsi che sconvolsero l’opinione pubblica internazionale.


Di Antonella Spiridigliozzi

Hutu contro Tutsi: le origini del conflitto in Ruanda

La genesi del genocidio in Ruanda, piccola repubblica dell’Africa orientale, tra la primavera e l’estate del 1994 va ricercata nelle tappe del dominio coloniale a partire dal XVII secolo, che favorì la rivalità tra le due comunità locali di riferimento: gli hutu e i tutsi. Prima delle spedizioni europee, nel XVI il Ruanda era un regno feudale con una struttura molto centralizzata, basato sulla divisione fra la comunità hutu, principalmente agricoltori, e quella tutsi, prevalentemente allevatori-guerrieri. Sebbene la divisione dei ruoli sociali fosse netta, c’è da dire che la possibilità di mobilità sociale non solo era possibile, ma veniva incentivata anche dall’ammissione di matrimoni misti. Durante la Conferenza di Berlino nel 1884, il territorio ruandese fu assegnato alla Germania come parte dell’Africa orientale tedesca.

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Sotto il dominio tedesco, la gerarchia precedentemente esistente rimase intatta: i capi tutsi mantennero il predominio sulla maggioranza composta da classi inferiori di hutu. Durante la Prima guerra mondiale, l’ex potenza coloniale tedesca perse il controllo sul Ruanda ed il Paese fu posto sotto l’amministrazione belga, prendendo il nome di Ruanda-Urundi: fu proprio la stagione del colonialismo belga ad aver maggiormente influenzato i futuri sviluppi politici del Ruanda.
Il governo coloniale centrale non alterò la struttura politica preesistente, e consolidò l’alleanza con l’aristocrazia locale tutsi, attraverso cui potette, indirettamente, esercitare il suo dominio. È in questo contesto che i coloni belgi iniziarono a studiare le due comunità territoriali da un punto di vista etnico-razziale, sulla scia degli studi scientifici dell’epoca a riguardo. Se prima dell’era coloniale, hutu (85% della popolazione), tutsi (14% della popolazione) e twa (1% della popolazione) vivevano in una relativa armonia, quando i Belgi introdussero le carte d’identità che distinguevano fra i tre gruppi, le tensioni tra hutu e tutsi iniziarono a focalizzarsi sulla questione della razza. A partire dagli anni Cinquanta fino al 1962, anno in cui il Ruanda divenne uno Stato indipendente, il Paese venne sconvolto da una rivoluzione sociale: la volontà di autodeterminazione da parte delle due etnie, portò a violenti scontri tra hutu e tutsi che assunsero la forma di scontri interetnici, causando la cosiddetta “diaspora” tutsi in Uganda, Tanzania e nello Zaire.

Agli inizi degli anni Novanta, un nuovo attore comparve sulla scena: il Fronte patriottico francese (Fpr), attivo in Burundi e sotto il controllo di tutsi esuli, tentò una prima invasione del Ruanda nel 1993 (partendo dall’Uganda), che trovò grandi difficoltà e che per questo fallì. Nel 1990, durante il summit dei Paesi francofoni a La Baule, l’allora presidente francese François Mitterrand, parlando di sviluppo e democrazia nelle ex colonie francesi, espresse il dovere degli Stati a rispondere ai desideri e alle aspirazioni delle popolazioni con una “apertura democratica”, comprendente un sistema rappresentativo, libere elezioni, multipartitismo, libertà di stampa, magistratura indipendente e abolizione della censura.

Affermando che la Francia era il paese che in quel momento stava compiendo lo sforzo più importante in materia di aiuti allo sviluppo, annunciò che i Paesi Meno Sviluppati (LDC) avrebbero ricevuto dalla Francia solo sovvenzioni, invece che prestiti (per combattere il massiccio aumento del debito del Terzo mondo durante anni ’80). Il presidente ruandese Habyarimana, percependo l’importanza dell’aiuto economico francese, accolse l’appello di Mitterand e permise la creazione di altri partiti, richiedendo contemporaneamente però il sostegno militare francese e zairese per fronteggiare l’Fpr. Il partito di Habyarimana, lo Mrnd (Mouvement révolutionnaire national pour le développement), nel frattempo, viveva molte difficoltà dovute alle accuse di regionalismo e di favoritismo mosse dai membri dei nuovi partiti politici ruandesi: dopo diciassette anni la stabilità del regime iniziò a vacillare. Per far fronte al crollo dei consensi, i vertici dello Mrnd, con Habyarimana in testa, scelsero di utilizzare ogni mezzo per riguadagnare popolarità e unire le masse contro il nemico comune, ovvero lo Fpr tutsi. Si organizzò così un movimento giovanile, l’Interhamwe (“lottare insieme” in kinyarwanda, la lingua ufficiale del paese), che aveva come scopo principale quello di mobilitare e coinvolgere le masse hutu a sostegno dello Mrnd e della lotta contro i nemici esterni ed interni.
Dopo mesi di tensione, in cui gli estremisti hutu affermavano con forza la correttezza della loro causa, in quanto espressione della maggioranza del popolo, e i comandi tutsi intraprendevano una guerra di logoramento, nel 1993 furono avviati i negoziati di pace che condussero agli accordi di Arusha fra il presidente ruandese Habymarina e il Fronte. Il 6 aprile 1994, a Kigali, la capitale del Ruanda, l’aereo del presidente hutu Juvénal Habyarimana fu abbattuto a colpi d’arma da fuoco (i responsabili dell’attentato sono tutt’ora ignoti) mentre si preparava all’atterraggio: fu questo il pretesto che consentì al governo di Kigali, sotto influenza hutu, di condurre una sistematica azione di sterminio della minoranza tutsi.

“Vite spezzate”: la violenza sessuale durante il genocidio in Ruanda

Secondo le stime di Human Rights Watch, dall’aprile al luglio 1994 furono tra le 500.000 e il milione gli uomini, le donne e i bambini tutsi e hutu moderati ad essere massacrati dalle milizie hutu. Fin dall’inizio delle uccisioni indiscriminate, fu chiaro che un gruppo di leader politici, minacciati dalla perdita del potere, pianificò le uccisioni con l’aiuto dei militari, dei miliziani hutu e di molti civili: «Oggi sappiamo che il genocidio non fu l’opera di arcaiche forze del caos, ma di un’élite istruita e moderna, che usò tutti gli strumenti a sua disposizione: forze armate e polizia, servizi segreti e milizie, apparato amministrativo e mezzi d’informazione. Gli assassini non erano dei demoni, ma i complici di un sistema criminale. Agirono seguendo una logica semplice: se gli hutu non avessero sterminato i tutsi, sarebbero stati i tutsi a sterminare gli hutu.»[1].  Già dal 1993, il presidente Habyarimana, insieme ai fedelissimi del partito, aveva messo in moto la macchina della propaganda al fine di alimentare la rivalità e l’odio tra hutu e tutsi: dapprima attraverso la stampa e poi attraverso un’emittente radio privata, la Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), che in realtà beneficiava del sostegno politico e finanziario da parte del governo. Successivamente si passò ad un primo reclutamento militare di giovani disoccupati addestrati a uccidere; si provvide alla fornitura di armi e munizioni distribuite clandestinamente; e si tessette una rete di amministratori impegnati, leader militari e politici pronti a guidare l’attacco. La propaganda hutu, colpì fin da subito anche le donne, rendendole un bersaglio privilegiato all’interno dello schema di attacco. Le donne tutsi si distinguevano per la loro bellezza, rendendole invise e alle donne hutu e agli uomini che, secondo un pregiudizio largamente diffuso, venivano considerati da queste (le donne tutsi) brutti ed inferiori. Gli hutu furono, in parte, guidati dalla rabbia accumulata nel corso degli anni per il loro status inferiore e dal risentimento per la presunta bellezza e arroganza dei tutsi. La sessualità della comunità femminile tutsi divenne dunque centrale nella creazione di uno stereotipo che le descriveva come delle arroganti seduttrici e predatrici, capaci di giacere con i loro stessi fratelli: non a caso, la parola kinyarwanda per descrivere le donne tutsi era Ibizungerezi (che significa bellissima e sexy). Negli anni Novanta, la propaganda ritraeva le donne tutsi come potenti e desiderabili e perciò da distruggere: dozzine di riviste in lingua francese e in lingua kinyarwanda erano accompagnate da vignette grafiche ritraenti donne tutsi mentre utilizzavano la loro presunta abilità sessuale sui caschi blu delle Nazioni Unite (sostenitori dell’Fpr secondo la propaganda) e il primo ministro moderato Agathe Uwilingiyimana in atteggiamenti sessuali espliciti con altri politici.

Il giornale Kangura, predecessore della stazione RTML, fu una virulenta voce di odio e si impegnò a mettere in guarda gli uomini hutu dal pericolo delle tutsi. Nel dicembre del 1990, in un numero di Kangura, il giornalista Hassan Ngeze pubblicò “I dieci comandamenti degli hutu”, quattro dei quali trattavano specificamente delle donne: « Every Hutu should know that a Tutsi woman, wherever she is, works for the interest of her Tutsi ethnic group. As a result, we shall consider a traitor any Hutu who: marries a Tutsi woman; befriends a Tutsi woman; employs a Tutsi woman as a secretary or a concubine. Every Hutu should know that our Hutu daughters are more suitable and conscientious in their role as woman, wife and mother of the family. Are they not beautiful, good secretaries and more honest? Hutu woman, be vigilant and try to bring your husbands, brothers and sons back to reason. The Rwandese Armed Forces should be exclusively Hutu. The experience of the October [1990] war has taught us a lesson. No member of the military shall marry a Tutsi.»[2].

Anche se la maggior parte delle donne vittime di violenza morirono prima di poter condividere la loro esperienza, un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che furono circa 250.000 le ruandesi stuprate in quei mesi del 1994. Le indagini di Hrw hanno evidenziato inoltre la correlazione, spesso rinvenuta nei casi trattati, tra stupro e mutilazioni. La mutilazione di organi sessuali e tratti “tutsi” come le dita affusolate e i nasi sottili, estremizzarono l’orrore del genocidio, infliggendo atroci sofferenze che condizionarono la possibilità da parte di queste donne di poter condurre, successivamente, una vita normale. Le mutilazioni sessuali includevano il versamento di acqua bollente nella vagina; l’apertura dell’utero per tirare fuori un bambino non ancora nato prima di uccidere la madre; la recisione dell’area del bacino; e la mutilazione di seni e vagine.

La venticinquenne Denise, descrive così il trattamento riservatole dai miliziani hutu, di cui facevano parte anche suoi vicini di casa, il 20 aprile 1944: « When I refused to answer, they began to beat me on the legs with sticks. Then one of them raped me. He said, “you are lucky. Your god is still with you because we don’t want to kill you. Now the Hutu have won. You Tutsi, we are going to exterminate you. You won’t own anything.” When he finished, he took me inside and put me on a bed. He held one leg of mine open and another one held the other leg. He called everyone who was outside and said, “you come and see how Tutsikazi are on the inside.” Then he said, “You Tutsikazi, you think you are the only beautiful women in the world.” Then he cut out the inside of my vagina. He took the flesh outside, took a small stick and put what he had cut on the top. He stuck the stick in the ground outside the door and was shouting, “Everyone who comes past here will see how Tutsikazi look.” Then he cameback inside and beat me again. Up to today, my legs are swollen. Then they left. I crawled out of the house bleeding. There was blood everywhere.»[3].

Vivere tra indifferenza ed oblio

A distanza di pochi anni dalla fine del conflitto ruandese, diversi furono i problemi di natura medica, sociale ed economica che colpirono le sopravvissute al massacro. La prima condizione da dover affrontare era quella della povertà: molte delle donne rimaste vedove, ebbero serie difficoltà ad accedere alle proprietà, alle pensioni e ai conti bancari dei loro mariti. Nel loro nuovo ruolo di capofamiglia, dovettero fronteggiare la responsabilità di provare a ricostruire la propria vita e quella dei loro figli, garantendo loro un alloggio, beni primari come il cibo e provvedendo alla loro istruzione. Le donne vennero lasciate sole: dopo aver perduto tutto ciò che apparteneva alla loro vita precedente, la rete assistenziale risultò carente e, il più delle volte, inesistente. Le sopravvissute allo stupro espressero la preoccupazione che non sarebbero mai state in grado di risposarsi, in quanto, nella maggioranza dei casi, contrassero malattie veneree quali l’AIDS. Nella società ruandese, dove le donne erano apprezzate principalmente per il loro ruolo di mogli e madri, la questione della possibilità di sposarsi era essenziale. Inoltre, per molte donne, il matrimonio rappresentava l’opzione migliore per ottenere sicurezza economica e una certa protezione. Il silenzio intorno allo stupro colpì le donne in molteplici modi, ma in particolare per quanto riguardava la loro salute sessuale e riproduttiva. Molte donne stuprate o mutilate continuarono a soffrire di problemi di salute, ma non consultarono mai un medico a causa dello stigma connesso, del costo e dell’inaccessibilità dell’assistenza sanitaria.

Il dottor Rwamasirabo, direttore del Kigali Central Hospital, osservò la riluttanza delle vittime a cercare cure mediche per paura di essere giudicate e per la vergogna di essere state violentate. L’isolamento psicologico accompagnò il percorso di riabilitazione delle vittime, caratterizzato da sentimenti di disperazione e sfiducia, dovuti anche alla loro nuova condizione di donne sole che non avevano più alcuno status nella società. Il dottor Etienne Mubarutso, ginecologo presso l’ospedale universitario a Butare, che esaminò centinaia di vittime di stupro dal genocidio, descrisse così la sua esperienza con i casi di stupro: « It has been two years since the war, but these patients are very difficult to cure. Initially, they come in with infections, vaginal infections, urinary tract problems-problems that are sexually transmitted. You cure the direct illness, but psychologically, they are not healed. They continue to come back complaining of cramps or pains, but there is nothing physically wrong with them. These women are profoundly marked psychologically. Medically, they are healed, but they continue to be sick. And there are no services that specifically deal with the problems these women have. There are some groups for widows, and the like, but there are no groups to help women who have gone through this [rape].»[4].Un’ultima menzione va fatta al caso dei cosiddetti “enfants non-desirés”, i “figli non voluti”: secondo i dati forniti dagli operatori sanitari degli ospedali di Kigali e Kabgayi, dopo il settembre 1994, più della metà delle donne incinte visitate per le consultazioni erano state stuprate. Nell’indagine su 304 sopravvissute allo stupro condotta dall’UNICEF, risultò come il 35% erano rimaste incinte dopo essere stata stuprate.183 In alcuni casi, molte donne non riuscirono ad accettare le gravidanze poiché associavano i frutti di quelle violenze alle brutalità perpetrate su di loro e sui loro familiari dagli stupratori.

La psicosi delle gravidanze conseguenti agli stupri fu la stessa osservata nel caso dell’ex Jugoslavia: queste gravidanze vennero rifiutate e nascoste, spesso negate e scoperte tardivamente. Furono spesso accompagnate da tentativi di aborto autoindotto o fantasie violente contro il bambino; talvolta anche dall’infanticidio. Frequenti furono inoltre i casi di suicidio in seguito alla scoperta di esser rimaste incinte dei propri violentatori. Infine, alcune donne decisero di accettare questi bambini: in alcune famiglie, questa scelta causò contrasti e divisioni, in altre i bambini furono cresciuti normalmente, non senza difficoltà, come si apprende dal caso di Marcelline: «Marcelline, a thirty-seven year old rape survivor was one of those who decided to keep her baby. She was raped by an Interahamwe in Musambira commune during the genocide. He threw her on the ground and said “I must rape you or kill you.” After raping her, he took her money and left her naked. She said, “I didn’t even want to open my eyes. There were bodies everywhere.” When she realized that she was pregnant, she did not care because she believed that she would be killed sooner or later. However, having survived the genocide, she accepted the baby girl. “The child is innocent. She knows nothing. She has a right to live,”Marcelline explained. “But no one knows that she is a child of an Interahamwe. No one talks about what happened.”»[5].


Note

[1] Grill B., “La prigione del passato”, trad. it. Marina Astrologo, Internazionale, 11 aprile 2014.
[2] Human Rights Watch/Africa, SHATTERED LIVES. Sexual Violence during the Rwandan Genocide and its Aftermath, September 1996.
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem


Foto copertina:  A picture taken on May 28, 1994 shows displaced Tutsis at a refugee camp in Kabgayi. Rwanda is poised to issue indictments and arrest warrants against 23 French military and political officials over their role in the country’s 1994 genocide, judicial sources in Kigali said on November 11, 2008. Warrants against senior French officials would mark another step in the judicial escalation between the two countries, after Germany, acting on a French warrant, detained a top Rwandan official in Frankfurt over the weekend. AFP PHOTO FILES ALEXANDER JOE (Photo credit should read ALEXANDER JOE/AFP/Getty Images)