Dialoghi con l’autore Emanuel Pietrobon.
“Un esperimento di comunicazione politica e strategica, destinato a divenire un modello per il futuro, modificando per sempre i moderni campi di battaglia con tantissimi elementi di novità. Primo tra tutti proprio la variabile Zelenskij “.
Sin dalle parole d’esordio del politologo Salvatore Santangelo nella prefazione al volume, appare evidente come la strategia comunicativa e il cine-populismo messi in atto dal presidente Ucraino Volodimir Zelenskij siano destinati a divenire un unicum nella storia della comunicazione politica e delle arti belliche. E proprio sulla tematica del teatro ucraino come spartiacque dell’ingegneria del consenso e della conflittualità si sviluppa l’opera di Emanuel Pietrobon “Zelenskij: la storia dell’uomo che ha cambiato (per sempre) il modo di fare la guerra”, edita da Castelvecchi (2022), in cui l’autore passa in esame, sotto la lente della comunicazione politica a colpi di tweet, video e meme, i fattori che hanno portato “l’uomo della speranza” (in caduta libera nei sondaggi all’alba del 24 febbraio) a diventare il primo leader online in tempi di guerra.
Dagli albori della sua carriera politica, iniziata a seguito dell’esperienza come attore comico in una celebre serie televisiva in cui interpretava proprio il Presidente Ucraino, l’analisi degli algoritmi di Facebook e Google e l’interazione con la popolazione direttamente dalla pagina Instagram hanno giocato a favore di Zelenskij, che – conscio dell’estensione del malcontento popolare per via della corruzione, dell’economia stagnante e del proseguimento della guerra nel Donbas – non ha esitato ad annunciare, tramite il canale televisivo ucraino 1+1, la decisione di competere alla corsa presidenziale del 2019 contro il rivale uscente Porošenko. Con una campagna elettorale a portata di click, l’interazione con i followers sui social network, un abile uso di slogan emotivamente incisivi, orecchiabili e facilmente memorizzabili e l’applicazione delle leggi della recitazione alla politica – fenomeno inaugurato proprio dallo stesso Zelenskij -, l’ex-comico è stato in grado di annoverarsi tra i candidati alla presidenza più votati nella storia dell’Ucraina indipendente, scelto da ben sette ucraini su dieci.
Nonostante una diffusa impopolarità fino allo scoppio della guerra, l’annuncio dell’ “operazione speciale” del Cremlino in Ucraina e la decisione di non avvalersi del corridoio offertogli dagli Stati Uniti per lasciare il Paese hanno fornito al Presidente l’occasione di rispolverare la comunicazione persuasiva che gli era valsa la presidenza e, al contempo, diventare quel simbolo di speranza e cambiamento che ha permesso la nascita di una resistenza civile di vaste proporzioni, la persuasione di un Occidente riluttante ad appoggiare direttamente la causa ucraina con armi e combattenti, e la proiezione di una guerra clausewitziana in stile Putin verso il futuro.
Anche in questo caso, i social network si sono rivelati il canale privilegiato su cui dare notizia del rifiuto di abbandonare il Paese e della resistenza guidata da Zelenskij, che – con un video girato in tuta mimetica e alla presenza di alcuni membri dell’ufficio presidenziale in una Kiev spettrale – ha dato vita ad un format multiforme che è andato estendendosi con l’intensificarsi del conflitto. Con una comunicazione studiata per esercitare un forte impatto emotivo, il linguaggio e l’ “insta-diplomazia” di Zelenskij si sono via via conformati ai canoni del mercato; l’intero settore della tecnologia mobile (circa 250.000 lavoratori) è stato mobilitato al fine di vincere in maniera tempestiva la guerra delle narrazioni; una “IT Army” legata al ministero della trasformazione digitale ha focalizzato gran parte delle iniziative su Tik Tok, la piattaforma di riferimento della Generazione Z che più di ogni altro social si serve di algoritmi che permettono una rapidissima diffusione dei contenuti. Come ha notato l’autore in maniera brillante, “l’Ucraina verrà ricordata come il primo teatro di guerra in cui la sesta dimensione della conflittualità, cioè lo stregamento dei cervelli, ha avuto un ruolo parimenti importante a quello delle altre cinque dimensioni (terra, mare, aria, spazio e rete) e conseguenze visibili e tangibili sul piano reale”.
Il conflitto è di fatto il primo teatro operativo delle guerre per il controllo mentale totale, dove i social network sono stati riconvertiti ad uso militare e la propaganda ha assunto una natura pervasiva e totalizzante.
Di questi aspetti e del futuro dell’ordine mondiale all’indomani della guerra in Ucraina abbiamo discusso con l’autore Emanuel Pietrobon.
Che cos’è la “guerra mentale”, e quali elementi la distinguono dalle precedenti forme di conflittualità informativo-psicologica? In che modo la categoria della guerra mentale può trovare la propria massima espressione nel teatro ucraino?
“Possiamo definire l’Ucraina come il teatro della “prima guerra cognitiva mondiale”, dove per cognitiva si intende, appunto, mentale. Progresso tecnologico, interconnessione 24/7, intensificazione e sofisticazione delle relazioni internazionali sono i motivi alla base del superamento delle tradizionali e più recenti forme di conflittualità psico-informativa, volgarmente rientranti nel termine ombrello “propaganda”. Il divenire del mondo un villaggio globale collegato alla rete in continuazione ha reso la disinformazione più semplice, economica e pervasiva rispetto al passato. Pensiamo al fatto che grazie a social network, stampa online e messaggistica istantanea una bufala, una volta pubblicata, può fare il giro del mondo in meno di un minuto – e non è un’iperbole. Ma se dietro alla diffusione di quella bufala non c’è un utente ordinario, quanto un’armata di troll rispondente all’agenda di un determinato paese, ecco che l’interconnessione può avere effetti destabilizzanti: una tempesta di bufale, semi-verità o post-verità, in molti casi concepite per polarizzare e radicalizzare, difficilmente controllabili in contesti liberal-democratici – per natura aperti e pluralistici – e, paradossalmente, persino resistenti alla verifica dei fatti (fact checking). Lo abbiamo già visto durante la pandemia di COVID19, quando questo nuovo tipo di disinformazione onnipresente ha galvanizzato sentimenti antivaccinisti e movimenti antirestrizioni che hanno spianato la strada a disordini, saccheggi e grandi dimostrazioni in lungo e in largo l’UE.
Una guerra informativa disorienta, una operazione psicologica terrorizza, ma una guerra cognitiva, che punta al controllo mentale, divide, stordisce e radicalizza con effetto immediato e ripercussioni nel lungo termine. Non si tratta più di indirizzare il voto in sede elettorale distruggendo la reputazione dell’avversario: si tratta di ridurre al minimo l’autonomia del pensiero per il più lungo lasso di tempo possibile. Come? Applicando gli insegnamenti della “guerra senza limiti” teorizzata in Cina all’alba del XXI secolo: tutto è o può essere un’arma. In questo caso, la macchina propagandistica ucraina ha saputo “militarizzare” i più importanti mezzi di comunicazione e di interazione della società virtuale, come Facebook, Twitter, Google, TikTok e Instagram, utilizzandoli per promuovere la propria narrativa, attrarre consenso popolare – anticamera del supporto politico –, demonizzare e demoralizzare il nemico – i russi – e gettare le basi di un sentimento ucrainofilo che duri nel tempo. Le guerre cognitive sono il futuro, è inevitabile, perciò è indispensabile parlarne, parlane ora, sensibilizzando sia l’opinione pubblica sia i decisori.
Quali effetti ha provocato il “formato Zelenskij” – fatto di cine-populismo, comunicazione persuasiva, neuromarketing e propaganda attraverso i social – tanto nel suo Stato quanto nello spazio post-sovietico e in Occidente?
“Gli effetti sono stati molteplici e visibili, e dunque analizzabili e misurabili – che è esattamente ciò che è stato fatto nel libro: una disamina accurata e scientifica del formato Zelenskij. In Occidente, anche se non in tutto, la macchina psico-informativa ucraina ha mobilitato le opinioni pubbliche e le rispettive classi politiche, ottenendo donazioni, armamenti e solidarietà. Secondo un recente sondaggio, più della metà dei cittadini europei sarebbe pronto a chiudere ogni tipo di relazione con la Russia per la guerra – non è questo, forse, un effetto “straordinario” nella sua epocalità? Io ritengo di sì. E se questa maxi-mobilitazione è avvenuta è perché la propaganda ucraina non ha dato scampo a quella russa, monopolizzando i canali europei 24/7, trasformando i social network in megafoni della presidenza Zelenskij e sfruttando l’eco degli influencer – vip del web ai quali si rivolgono i giovani, sempre di più, per informarsi su politica.
Nello spazio postsovietico, nonostante la censura applicata dai regimi politici al potere, la macchina ucraina ha trovato il modo di penetrare, attecchire e magnetizzare il consenso popolare. Proteste pacifiste hanno avuto luogo dalla Moldavia al Kazakistan e, in generale, in quasi l’intero spazio postsovietico, suscitando imbarazzo sia al Cremlino sia ai governi in carica. Scrivere di questo argomento è fondamentale: è altamente probabile che gli Stati Uniti e i loro alleati, penso alla Turchia, proveranno a capitalizzare la piantatura di questi semi della zizzania nel prossimo futuro, a guerra finita, per attuare operazioni di disturbo a danno della Russia. E se ciò accadrà, e io penso che proprio di sì, sarà merito del formato Zelenskij. Non mi stupirebbero, infine, delle proteste contro il governo centrale nelle periferie della Federazione russa, sempre alimentate dalla macchina ucraina.”.
É corretto, a suo avviso, definire l’operazione Zelenskij come un successo tout-court?
“La storia attuale dimostra che lo è stato nell’immediatezza. I posteri, invece, sentenzieranno sul suo impatto nel medio e lungo termine. Zelenskij ha agito da classica “variabile impazzita” che scardina piani prestabiliti, rimescola le carte in tavola e obbliga i giocatori a riscrivere ex novo i loro piani d’azione. L’imprevisto che non ti aspetti o dal quale non ti aspetti un simile impatto. A onor del vero, neanche l’Occidente si aspettava che Zelenskij rimanesse in patria – questo il motivo, tra l’altro, del ritardo nell’invio dei primi armamenti: forte era la convinzione che Zelenskij non avrebbe retto, che gli ucraini non avrebbero dato vita ad una tanto tenace resistenza. Restando, e sorprendendo sia Russia sia Occidente, Zelenskij ha costretto la prima a rivalutare la propria agenda bellica e incoraggiato il secondo a profittare degli eventi per fare dell’Ucraina il teatro di una guerra per procura al Cremlino.
I tour virtuali nei parlamenti occidentali, le comparsate ai grandi festival, gli appelli incessanti sui social media; tutto è stato studiato per esercitare il massimo impatto emozionale possibile, che è, solitamente, precursore del coinvolgimento. Una legge del neuromarketing applicata alla politica che, come si è visto, ha funzionato: magnetizzazione del consenso popolare in gran parte d’Occidente e dello spazio postsovietico, trasformazione di quel consenso popolare in appoggio politico, militare e diplomatico – cioè armi e sanzioni.
Non nego che Zelenskij sia un personaggio divisivo e polarizzante, che certamente ha tante ombre – delle quali ho scritto e parlato in diversi luoghi –, ma qui si sta trattando di Zelenskij come fenomeno, come operazione, e non come uomo. E se la domanda è “l’operazione Zelenskij ha funzionato?”, la risposta non può che essere “sì”: se non fosse rimasto, rivelandosi un maestro nelle arti della guerre informativa, psicologica e cognitiva, difficilmente si sarebbe presentata l’opportunità di afghanizzare l’Ucraina. Questo è ciò che va spiegato all’opinione pubblica e il libro nasce con l’intento di mostrare, dati e fatti alla mano, l’impatto effettivo della variabile Zelenskij sul corso degli eventi.
Il volume cita a più riprese il teorico Zbigniew Brzezinski, autore del volume “La grande scacchiera”, diventato una sorta di testamento spirituale per futuri geostrateghi, geopolitici e diplomatici che avrebbero servito la Casa Bianca. In che modo Brzezinski risulta di estrema attualità nella comprensione della logica della “guerra economica totale” lanciata dall’Occidente all’indomani dell’attacco russo a Kiev?
“Brzezinski è stato uno dei più importanti geostrateghi del secondo Novecento, un uomo che ha contribuito a difendere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti fornendo spunti accademici e formulando piani d’azione. Scrivere di Brzezinski equivale a raccontare l’epopea di Solidarność in Polonia, l’armamento dei mujaheddin durante l’invasione sovietica in Afghanistan e l’espansione della NATO nell’ex Patto di Varsavia. Scrivere di Brzezinski, in breve, equivale a raccontare un pezzo di storia degli Stati Uniti. Ho scelto di riagganciarmi a Brzezinski perché Zelenskij è il titolo del libro, ma non ne è il contenuto, che tratta, invece, di guerre cognitive, competizione tra grandi potenze e origini e ragioni della guerra in Ucraina. Brzezinski, infatti, è stato il teorico dell’”espulsione della Russia in Asia” e penso sia fondamentale tornare a lui per comprendere gli accadimenti di oggi. Gli Stati Uniti, approfittando della sconsiderata decisione di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina, hanno pianificato e implementato un regime sanzionatorio mirante a disaccoppiare UE e Russia allo scopo di satellizzare ulteriormente la prima e di espellere la seconda in Asia. Una scelta rischiosa? Sicuramente. Ma è un rischio calcolato: perché, come spiegava Brzezinski, se da un lato c’è la possibilità di dare impulso ad una coalizione antiegemonica sino-russa, dall’altro c’è l’aspettativa di trascinare la Russia nelle sabbie mobili di quello che Brzezinski definiva l’Arco di crisi, dove per sabbie mobili si intendono il terrorismo islamista, i conflitti etno-religiosi e tribalistici del mondo turco-irano-islamico e un plausibile scontro con la Cina per l’egemonia del continente nel lontano futuro.”.
La guerra in Ucraina viene definita “il vero spartiacque della prima parte del XXI secolo”, un evento ben più importante dell’elezione di Trump alla guida degli Stati Uniti – che ha dato avvio allo scontro egemonico con la Cina. Quale sarà, a suo avviso, il contributo del conflitto al già instabile ordine mondiale delineatosi nel post-Guerra Fredda e alla globalizzazione, per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi?
“Affermare che la guerra in Ucraina è il vero spartiacque della prima parte del XXI secolo significa sostenere che ci saranno un prima e un dopo Ucraina nelle relazioni internazionali. E il corso degli eventi sembra suggerire che sia così: questa guerra ha accelerato in maniera dirompente una serie di tendenze geopolitiche e geoeconomiche pre-esistenti, dal disaccoppiamento eurorusso al superamento della globalizzazione, fungendo da capolinea e prima fermata al tempo stesso. Capolinea dell’eurasismo, che già nell’anteguerra era in fin di vita, e dunque del progetto ambizioso di costruire un’Europa estesa da Lisbona a Vladivostok. Capolinea dell’autonomia strategica europea, emblematizzato dall’allargamento e dal rafforzamento della NATO, e del partito della distensione, come dimostrano le cacce alle streghe partite un po’ ovunque. Prima fermata di un fenomeno da tempo in fermento, e cioè la transizione multipolare, come suggerito dalla resurrezione dei BRICS e dalla germinazione del petroyuan, primi mattoncini dell’edificio della dedollarizzazione.
La Russia sta scommettendo tutto sulla guerra in Ucraina: la convinzione è che sarà ricordata, a posteriori, come il catalizzatore della transizione multipolare e, dunque, della fine del sistema internazionale a guida occidentale. Una scommessa che vede quasi l’intero Sud globale col fiato sospeso, perché la voglia di emancipazione dal neocolonialismo euroamericano è tanta. Ma le incognite che dovrà affrontare la Russia sono tante: screzi nella cerchia del potere, il dopo-Lukashenko in Bielorussia, la discordia seminata negli -stan dalla guerra cognitiva ucraina, la sostenibilità dell’estensione imperiale nel Sud globale.
Per quanto riguarda l’Unione Europea: distensione e autonomia sono miraggi e tali rimarranno per molto tempo, sebbene l’insospettabile Macron-Orban stia tentando di rallentare i tempi e migliorare le condizioni del divorzio eurorusso. Esiste il rischio concreto che l’assenza di lungimiranza della classe dirigente e l’aggravarsi della competizione tra grandi potenze, sullo sfondo dell’impoverimento generale causato dalla guerra economica in corso – pensata dagli Stati Uniti per disaccoppiare le due Europe, indebolendo la prima (UE) ed espellendo in Asia la seconda (Russia) –, realizzino poco alla volta un altro piano antieuropeo degli Stati Uniti: la latinoamericanizzazione del Vecchio Continente. Di nuovo, qualora ciò dovesse accadere, le basi per tale declassamento autoimposto saranno state poste in Ucraina.”.
Tra le righe delle sue riflessioni sull’ordine mondiale che verrà, emerge la possibilità che il sistema internazionale si stia muovendo verso un “multipolarismo integrale”. Quale scenario si potrebbe ipoteticamente prefigurare nel caso in cui il conflitto si concludesse a favore dell’asse Mosca – Pechino? Vi è il rischio che l’Occidente cessi di essere il nucleo dell’economia planetaria, per trasformarsi in uno dei blocchi che compongono la comunità internazionale?
“Opinione personale, ma che penso sia più di un’opinione: il baricentro del mondo si è spostato dall’Atlantico all’Indo-Pacifico già da molto tempo. Questa guerra non ha fatto che ricordarcelo. Il semplice fatto che l’amministrazione Biden non riuscita a internazionalizzare la “guerra economica totale”, persuadendo soltanto i junior partner europei e pochi altri fedelissimi di lunga data a sanzionare la Russia, è più che eloquente. I BRICS, dati per morti, sono letteralmente resuscitati durante la guerra – coi “BICS” allineati in toto con la “R”, nonostante le minacce, i ricatti e le pressioni da parte degli Stati Uniti. Abbiamo avuto l’eclatante diniego saudita alle “richieste energetiche” di Biden, accompagnato dal concomitante svelamento del petroyuan. Segnali di un mondo che cambia, o meglio: che è già cambiato, sotto i nostri occhi, senza che le classi dirigenti se ne accorgessero. L’Occidente continua indubbiamente a essere il blocco geopolitico e geoeconomico più influente del pianeta, per via della straordinariamente alta densità di cervelli, tecnologie e danari, ma difficilmente potrà preservare tale status nel lungo periodo. E questa, di nuovo, penso che sia più di un’opinione: penso che sia lo specchio di una realtà. Inevitabile? Non lo so. La storia insegna che tutto è possibile, specialmente l’impossibile, e dunque un’inversione del declino civilizzazionale dell’Occidente non va esclusa a priori. Ma, al momento, non intravedo né segnali di rinascita né, cosa più importante, voglia di ritorno nella storia. Nel resto del mondo, al contrario, le pance delle potenze emergenti sono affamate di storia e rivalsa.”.
Foto copertina: Volodimir Zelenskij