Trump, Harris e gli immigrati nella corsa alla Casa Bianca


Dagli insulti ai portoricani al “Do Not Come” in Guatemala: le proposte per gestire il fenomeno migratorio decideranno il nuovo Presidente degli Stati Uniti?


«Un’isola galleggiante di spazzatura»: così il comico Tony Hinchcliffe ha definito Porto Rico durante il comizio-evento tenuto per la campagna di Donald Trump al Madison Square Garden di New York la settimana scorsa. La battuta è stata rapidamente ripresa da tutti i mezzi di comunicazione e non ha subito il classico trattamento da vario tempo riservato alle cacciate dell’ex presidente degli Stati Uniti. Questa volta il danno sembra essersi verificato sul serio. In Pennsylvania, ad esempio, dove sono mezzo milione i voti degli statunitensi di discendenza portoricana che il candidato repubblicano, secondo le stime più recenti, potrebbe perdere e dove il comitato democratico saluta il risentimento dei latinos che ne è seguito come vera manna dal cielo. Mai come durante questa tornata elettorale, infatti, l’assegnazione naturale dei voti delle comunità di origine latinoamericana alla base dem è messa in discussione dalle proiezioni e dai sondaggi[1].

La più grande deportazione della storia degli Stati Uniti: l’agenda Trump per le migrazioni

Sarà difficile per i votanti non prendere sul serio la cornice di legittimità in cui si inserisce l’infelice battuta di Hinchliffe, costituita non solo da tutti gli sprezzanti riferimenti che Trump rivolge ai migranti da quando è apparso sulla scena politica statunitense, ma dalle concrete proposte che ha messo sul tavolo per questa tornata elettorale, assai più radicali di quelle del 2016:

  • Deportazione stimata di circa 11 milioni di immigrati irregolari;
  • Riallocazione di truppe militari al confine col Messico, la principale frontiera da cui passano i flussi, divenuta tristemente famosa per i respingimenti e per i crescenti pericoli affrontati per attraversarla;
  • Possibilità, per le unità di sicurezza destinate alla verifica dello status dei migranti, di eseguire controlli e raid nei posti di lavoro;
  • Negare il diritto a giusto processo a migranti illegali;
  • Eliminazione della cittadinanza acquisita come diritto di nascita dai figli dei migranti;
  • Revoca dei visti a studenti che abbiano partecipato a manifestazioni in difesa della causa palestinese;
  • Imposizione di uno screening ideologico all’ingresso negli Stati Uniti che si incarichi di verificare connessioni di ogni genere con Hamas o “gruppi jihadisti”;
  • Ripristino di tutte le politiche adottate durante il suo primo mandato e successivamente revocate, fra cui il refugee ban (più noto come “muslim ban”), il prolungamento di 200 miglia del muro al confine col Messico, travel ban e cancellazione del Temporary protected Status, concesso per diciotto mesi ad alcune categorie di rifugiati[2];
  • Concessione della cittadinanza a tutti gli studenti laureati negli Stati Uniti.

Un’agenda tutt’altro che ironica che il candidato repubblicano continua a promuovere mentre il suo comitato elettorale si occupa di riparare i danni causati dall’infelice battuta della settimana scorsa. La strategia, sul piano comunicativo, consta di nervosi inviti a mostrare più senso dell’umorismo, accompagnati a dichiarazioni dalla dubbia verificabilità di Trump, il quale si definisce il più grande amico dei latinos e dei portoricani, sostenendo di aver fatto molto per loro durante la sua presidenza. I fatti dicono tutt’altro: ad esempio, che bloccò i fondi per i soccorsi intervenuti per riparare i danni dell’uragano che impattò sull’isola nel 2017, oltre a scherzare pubblicamente sulla possibilità di liberarsi dell’isola vendendola[3].
Tuttavia, il vero corpo della difesa di Donald Trump, lontano alcune miglia dal fact-checking caro all’opposizione, è costruito soprattutto sull’attacco. Questa volta c’è una strategia ben definita: far passare Kamala Harris per lo “zar del confine” di Biden. Proprio con questa espressione, ripresa e rilanciata a ritmi intensi dai media trumpiani e dai politici repubblicani su X.

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Harris e gli immigrati durante l’amministrazione Biden

Fra l’elettorato degli Stati Uniti, in seguito  alla ritirata dalla nuova corsa del presidente in carica Joe Biden causata delle enormi pressioni esercitate dai sostenitori della campagna, oltre che di una più o meno evidente manifesta incapacità di sostenere un altro mandato, è diffusa la percezione di aver subito, anche negli ultimi anni, un certo grado di mismanagement governativo[4]. Tale discredito ha a che fare infatti solo in parte con gli fallimenti, soprattutto in politica estera, riconducibili all’amministrazione Biden, ma è uno strascico percettivo della ritirata stessa, di cui occorreva tener conto fin da luglio, quando si optò per l’epocale rinuncia che indusse Kamala Harris ad accettare la sfida di costruire una campagna presidenziale in circa tre mesi. In questo clima e negli ultimi concitati giorni che possono fare la differenza, Harris ha cominciato gradualmente a smarcarsi dal suo ruolo di vice-presidente di Biden, tentando di conferire un grado di autonomia maggiore alla sua candidatura. Sul tema delle migrazioni, non può che trarre benefici da quest’inversione di rotta. Da vicepresidente, infatti, la candidata democratica aveva ricevuto alcuni compiti relativi alla gestione dei confini particolarmente angusti, ma assai limitati. Come si affanna a diffondere chi sta lavorando per lei in questi giorni, contrastando la diffusione dell’immagine di una “zar del confine”, Harris non ha mai presieduto un incarico che le riconoscesse la possibilità di rivedere le leggi sull’immigrazione. Quello sarebbe spettato alla US Commission on Border Protection. Alla sua vice, Biden aveva semplicemente delegato un’azione diplomatica, già condotta da lui stesso durante l’amministrazione Obama, per ridurre gli incentivi alla migrazione nei paesi centro-americani, con particolare riferimento a Messico, El Salvador e Guatemala[5]. Un compito non facile e che sapeva già l’avrebbe resa impopolare. Gli analisti, infatti, consideravano le politiche di migrazione col focus sulle cause del fenomeno, corredate di aiuti e investimenti in loco per persuadere i potenziali emigranti a non intraprendere una pericolosa partenza, poco soddisfacenti sul breve termine, destinate a dimostrare in almeno dieci- vent’anni la loro efficacia, ma soprattutto obsolete: adatte forse allo scenario in cui Biden aveva condotto tale tipo di missioni, fra il 2014 e il 2015, non di certo al contesto degli ultimi anni, profondamente mutato durante la gestione Trump e alterato dalla stessa. Harris ne era consapevole e ha infatti investito ben poca energia nel ricoprire tale incarico, tanto da attirarsi le critiche, oggi riprese di suoi avversari politici, di chi lamenta delle sue due sole visite ai paesi del Centro-America di cui avrebbe dovuto occuparsi[6]. Fu proprio in occasione di una di queste che pronunciò il celebre “Do not come”, con cui invitava i guatemaltechi a non intraprendere il pericoloso viaggio verso gli Stati Uniti. Quella frase, tuttavia, per le organizzazioni internazionali che si occupano di migrazione e per i comitati civici locali suonò come una condanna carica di una repellenza che la poneva in totale continuità coi respingimenti operati sotto Trump[7].

Le proposte democratiche

Anche se Harris non ha mai avuto il potere di uno “zar del confine”, né la volontà di occuparsi della questione, la sua negligenza, pur quando provata, non la metterebbe al sicuro dalle critiche di cui è oggetto l’amministrazione Biden rispetto al tema dell’immigrazione, oggi considerato fra le più grandi minacce del paese e tra le urgenze più importanti da affrontare per il governo che verrà.
Attualmente, il suo programma politico per farvi fronte include:

  • Standard più alti per ottenere i diritti legati all’asilo;
  • L’istituzione di un processo di “protection determination” per ogni richiedente asilo, consistente in un’indagine personalizzata della durata massima di 90 giorni, al termine dei quali si procederebbe con la deportazione o con l’immissione in un circuito di diritti e garanzie adatte allo status riconosciuto;
  • 8 miliardi di dollari in più di fondi da destinare alle strutture detentive per immigrati;
  • La cittadinanza per gli alleati afghani con una storia di cooperazione nell’ambito dell’occupazione statunitense, oltre che l’implementazione della cooperazione consolare a Kabul riservata agli stessi e alle loro famiglie[8].

Conclusioni

La criminalizzazione del processo migratorio corre insomma insieme ad entrambi i contendenti.
Se neanche Kamala Harris, con la sua storia personale di figlia di un realizzato sogno americano, può esimersi dal promettere 8 miliardi di dollari in istituti detentivi in cui bloccare la speranza di una vita migliore per le migliaia di persone che ogni anno cercano di oltrepassare il confine, è certo dovuto ad un profondo mutamento di percezione dei pericoli e delle sfide di questo momento storico nell’elettorato statunitense. Se finanche il suo comitato elettorale sta significativamente facendo poca leva sulla sua identità di non bianca (assai meno, ad esempio, che durante la campagna presidenziale di Barack Obama) è perché la sinistra statunitense ha cambiato atteggiamento rispetto al trumpismo e alla strategia con cui combattere l’eredità che hanno lasciato quattro anni di suo governo e altri quattro anni di continua delegittimazione dell’ordine democratico e accuse all’ideologia “woke”. A quale prezzo lo scopriremo solo se queste mosse si dimostreranno vincenti.


Note

[1]https://www.politico.com/news/2024/10/28/trump-rally-puerto-rico-pennsylvania-fallout-00185935
[2] https://www.piie.com/blogs/realtime-economics/2024/trump-vs-harris-immigration-future-policy-proposals
[3]https://www.theguardian.com/us-news/2024/oct/29/donald-trump-puerto-rico-pennsylvania [4]https://www.newyorker.com/news/daily-comment/the-real-story-of-kamala-harriss-record-on-immigration
[5] https://www.piie.com/blogs/realtime-economics/2024/trump-vs-harris-immigration-future-policy-proposals
[6] https://www.latimes.com/world-nation/story/2024-07-26/kamala-harris-immigration-border
[7] Ibidem
[8]https://www.piie.com/blogs/realtime-economics/2024/trump-vs-harris-immigration-future-policy-proposals


Foto copertina: Trump e Harris il tema immigrati per la corsa alla Casa Bianca