A sei mesi dall’inizio della guerra in Gaza, la campagna militare israeliana è stata finora un fallimento strategico e un disastro umanitario. Israele si è posto come obiettivi la distruzione totale di Hamas, il recupero degli ostaggi e la ricostruzione della sua capacità di deterrenza. Ad oggi, solo quest’ultimo obiettivo sembra essere stato raggiunto. Tuttavia, Israele continua a non comprendere che la deterrenza, da sola, non assicura la pace, che è invece sempre il risultato di diplomazia e compromessi.
Progressi limitati
Dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre scorso, il premier israeliano Netanyahu dichiarò che Israele avrebbe distrutto l’organizzazione militare palestinese, uccidendone i leader ed eliminandone le capacità militari e infrastrutture. La prima fase dell’operazione “Swords of Iron” è consistita nei bombardamenti successivi al 7 ottobre, che avevano l’obiettivo di distruggere obiettivi militari di Hamas sulla superficie, costringere i civili a fuggire e preparare il terreno per l’offensiva di terra. La seconda fase, iniziata il 27 ottobre, consisteva nell’invasione del nord e centro della Striscia, portata avanti da unità di forze speciali, che hanno diviso il territorio lungo la direttrice del Wadi di Gaza, occupando città chiave come Gaza City e Khan Younis. Infine, durante la terza fase, iniziata a gennaio e che dura tuttora, l’esercito israeliano mirava a condurre operazioni kill-or-capture, andando a colpire anche le reti di tunnel sotterranei.[1] L’IDF ha dichiarato di aver sconfitto 18 dei 24 battaglioni di Hamas, ucciso più di 8.000 membri dell’organizzazione, su un totale di 30.000, e alcuni leader come Marwan Issa, che aveva contribuito alla pianificazione dell’attacco del 7 ottobre ed era probabilmente la terza figura più importante di Hamas a Gaza[2].
Nonostante i progressi, l’obiettivo di distruggere Hamas è lontano e probabilmente impossibile. L’organizzazione palestinese conta ancora decine di migliaia di membri, e i leader più importanti, Ismail Haniyeh, Mohammed Deif and Yahya Sinwar, sono ancora liberi, probabilmente fuori dalla portata delle armi israeliane. Ma il vero problema è che la distruzione totale di Hamas non è un obiettivo realistico. Come hanno scoperto gli Stati Uniti combattendo l’ISIS, non si può sconfiggere un’ideologia. Israele potrebbe anche decimare Hamas, sebbene a costi ingenti e in tempi lunghi (l’IDF ha già subito 200 perdite), ma non potrà mai essere sicuro che un’altra organizzazione non prenda il suo posto, o che essa non si ri-attivi in futuro.
Un altro obiettivo chiave della campagna israeliana era recuperare gli ostaggi. Ne rimangono 133 in mano di Hamas, mentre alcuni sono stati salvati, altri liberati a seguito di negoziazioni e altri probabilmente morti a causa dell’operazione militare israeliana. Gli ostaggi sono un tema molto delicato per Israele, come si è visto dalle proteste contro il governo Netanyahu per i mancati progressi nel recupero.
Israele ha anche gravemente danneggiato la sua reputazione internazionale a causa degli oltre 30.000 morti, di cui più di 13.000 bambini, il rischio carestia, gli attacchi agli ospedali, le restrizioni agli aiuti umanitari, i crimini di guerra e contro l’umanità[3], e la ragionevole[4] accusa di genocidio portata dal Sudafrica davanti alla Corte Internazionale di Giustizia[5]. Persino alleati storici come gli Stati Uniti hanno manifestato irritazione nei confronti della campagna militare israeliana. Washington ha ripetutamente chiesto che Israele rispetti il diritto internazionale, faccia entrare gli aiuti umanitari e non invada Rafah. Gli Stati Uniti hanno anche sollevato il loro veto al Consiglio di Sicurezza Onu, consentendo una risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco durante il Ramadan. Nonostante ciò, rimane il fatto che gli stati che esprimono contrarietà alle azioni militari israeliane non mettono in dubbio le relazioni politiche con Tel Aviv. Gli accordi di Camp David, gli accordi di Abramo, così come le forniture di armi statunitensi, non sono stati scalfiti dalla catastrofe umanitaria. Tuttavia, le azioni israeliane rendono sempre più difficile per i governi giustificare le relazioni con Israele.
Ad oggi, dunque, la campagna militare israeliana ha ottenuto ben poco rispetto a ciò che si prometteva e a ciò che è utile a livello strategico per Tel Aviv. Hamas è stata certamente indebolita e non potrà compiere degli attacchi come quello del 7 ottobre nel breve e medio periodo, se non altro perché Israele porrà molta più attenzione alle sue azioni ed eviterà di sottovalutarne le capacità offensive, come fatto in precedenza. Tuttavia, l’indebolimento e persino la distruzione di Hamas rappresentano una vittoria tattica molto incerta. La sicurezza di Israele, cioè l’obiettivo strategico primario dello stato ebraico, non può reggersi solo sulla sconfitta di Hamas[6]. Il successo della campagna di Tel Aviv va misurato nel lungo termine, considerando il futuro della popolazione palestinese e la visione che essa avrà della sua condizione e di Israele. Continuare ad avere un popolo oppresso ai propri confini non darà mai una garanzia di sicurezza a Tel Aviv. Per avere successo e ottenere pace e sicurezza, Israele deve risolvere la questione palestinese, non sconfiggere militarmente Hamas[7].
Una nuova dottrina securitaria
Un altro obiettivo perseguito da Israele con la sua campagna militare è quello di restaurare la sua capacità di deterrenza, che era stata gravemente danneggiata dopo il 7 ottobre, specialmente dato il grave fallimento di intelligence. Israele era a conoscenza di movimenti, piani ed esercitazioni portate avanti da Hamas in preparazione all’attacco, e ha comunque sottovalutato la minaccia e sopravvalutato le sue capacità difensive[8].
Per Israele la deterrenza non è solo importante al fine di scoraggiare attacchi da parte dell’Iran e i suoi proxies, ma anche per convincere gli altri stati del Medio Oriente ad allinearsi a Israele, come fatto con gli accordi di Abramo. La propensione di stati come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia ad associarsi a un nemico storico come Israele deriva proprio dalle capacità militari di Tel Aviv, che assicurano un alleato forte contro l’Iran.
Finora, Israele è riuscito a mantenere una forte capacità dissuasiva, anche grazie all’aiuto non indifferente degli Stati Uniti, che hanno subito prestato supporto diplomatico e militare. Il rischio di una guerra a due fronti è stato evitato, dato che Hezbollah ha per adesso trattenuto i suoi attacchi, così come i proxies iraniani in Iraq e Siria, che hanno evitato l’escalation. Anche dopo l’uccisione di un alto ufficiale iraniano a Damasco[9], l’Iran ha mancato di rispondere nelle 24 ore, come aveva promesso, e difficilmente vorrà causare un’escalation. Dopo il 7 ottobre, il governo israeliano avrebbe potuto diminuire i suoi attacchi nella regione per concentrarsi su Hamas, dato il rischio di una guerra a due fronti. Invece, Netanyahu ha scelto la strada più rischiosa di aumentare i suoi attacchi a Hezbollah e Iran, scommettendo sulla loro debolezza. Al contrario di quanto si potesse pensare, la guerra in Gaza è servita a Israele per colpire in maniera più decisa e diretta i suoi nemici, nella convinzione che essi eviteranno l’escalation. Agli occhi del governo israeliano, questo era il momento migliore per farlo, anche grazie al supporto di Washington in questo frangente. Commentatori israeliani hanno fatto notare come l’Iran sia una “tigre di carta”, e utilizzano la mancata reazione all’uccisione americana del generale delle forze Quds Soleimani nel 2020 come caso esemplare della scarsa propensione di Teheran a fomentare l’escalation.[10] Finora, i fatti hanno dato ragione a Tel Aviv, sebbene rimanga il rischio che l’Iran a un certo punto percepisca il bisogno di rispondere e che l’escalation avvenga.
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La deterrenza è alla base della sicurezza di ogni stato. Per essere sicuro di non essere attaccato, uno stato deve essere abbastanza forte militarmente da incutere timore negli avversari. Il concetto è sintetizzato dall’abusata frase “Si vis pacem, para bellum”. Tuttavia, questa nozione è alla base di un comune errore nel pensiero strategico degli stati. Dipendere troppo dalla deterrenza, fidandosi della propria capacità di incutere timore nei nemici, può portare a gravi errori.
Non è infatti raro che uno stato attacchi un altro molto più forte. Questo può avvenire per vari motivi: errori di percezione, vulnerabilità dello stato più forte o una convinzione di poter ottenere una vittoria tattica.[11] Nel 1904 l’esercito russo superava quello giapponese in termini numerici, ma la sua vulnerabilità navale fu sfruttata dal Giappone, che gli inflisse una sconfitta umiliante. Nel 1936 la Francia era superiore militarmente alla Germania, ma questo non impedì a Hitler di occupare l’Austria. Così, nel 1982 l’Argentina non si fece deterrere dal Regno Unito e attaccò comunque le isole Falkland. Gli Stati Uniti sono lo stato con maggiore capacità di deterrenza al mondo. Eppure, questo non impedisce a stati come l’Iran di attaccare le sue basi in Medio Oriente, tramite i suoi proxies in Iraq e Siria e gli Houthi in Yemen. Nel 1979 l’Iran permise l’occupazione e la presa di ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran, pur sapendo di essere più debole e che gli Usa avrebbero potuto rispondere con la forza.
Anche Israele ha spesso subito il fascino della deterrenza. Nel 1973, la capacità di dissuasione di Israele era al suo massimo storico, grazie alle vittorie militari nel 1948, 1956 e 1967. Al mito dell’invincibilità di Tel Aviv credevano sia i suoi nemici che Israele stesso. Così, come spesso accade, la troppa fiducia nelle proprie capacità militari e di deterrenza causò un errore di intelligence, che portò a una momentanea sconfitta nella guerra dello Yom Kippur e danneggiò l’immagine internazionale di Israele. Nonostante la finale vittoria militare israeliana, il mito dell’invincibilità era infranto e la deterrenza diminuita. Fu proprio questo, però, a consentire una soluzione politica e una pace duratura tra Israele ed Egitto, grazie agli accordi di Camp David del 1978.
La lezione che la storia di Israele stesso insegna è che la deterrenza è una condizione necessaria ma non sufficiente per la pace. Così come nel 1973 Israele credeva che essere forte militarmente equivalesse a pace e sicurezza, e si sbagliava, così fino al 7 ottobre ha creduto di poter gestire la minaccia di Hamas con regolari azioni di “mowing the loan” (tagliare l’erba), che distruggessero le capacità offensive dell’organizzazione islamista. Israele ha ignorato la questione palestinese e ha, anzi, perseguito in Gaza e Cisgiordania politiche razziste, coloniali e oppressive, contrarie al diritto internazionale, impedendo il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. L’attacco del 7 ottobre è l’ennesima conferma del fatto che la deterrenza non è un buon sostituto della diplomazia. L’assunto sul quale la politica estera israeliana si è basata negli ultimi 20 anni, cioè che non servisse creare uno stato palestinese ma solo tenere separate e deboli Cisgiordania e Gaza, è sbagliato. Israele non potrà mai essere sicuro finché vi sarà una questione palestinese da risolvere.[12]
Non solo perché vi saranno sempre combattenti palestinesi pronti a lottare per l’autodeterminazione del proprio popolo, ma anche perché stati come l’Iran potranno sfruttare la questione per attaccare Israele, supportando gruppi come Hamas.
La campagna militare israeliana ha parzialmente raggiunto alcuni degli obiettivi che si era prefissata. Hamas è stata indebolita e la deterrenza è stata ricostituita. Questa vittoria tattica è avvenuta al costo di decine di migliaia di morti tra i civili palestinesi, che non sostenevano Hamas prima del 7 ottobre, ma che ora vedono la soluzione a due stati come un miraggio lontano e si aggrappano all’unica fazione palestinese che sembra combattere per la loro causa[13].
La dottrina securitaria israeliana è fallita il 7 ottobre. Serve costituirne una nuova, che si basi non solo su deterrenza e potenza militare, ma su un piano politico che garantisca al popolo palestinese il suo diritto a uno Stato. È improbabile che l’attuale governo di estrema destra si presti a questo cambio di prospettiva, ma è necessario che Tel Aviv cambi le sue politiche oppressive nei confronti dei palestinesi, sia in Gaza che in Cisgiordania, non solo per rispetto del diritto internazionale, ma anche per garantire la sicurezza dello Stato ebraico sul lungo termine.
Note
[1] “Israel Shifts to ‘Third Phase’ of Gaza War”, fdd.org.
[2] “Stuck in Gaza”, Daniel Byman, foreignaffairs.com.
[3] “The Myth of Israel’s “Moral Army””, Avner Gvaryahu, foreignaffairs.com
[4] “Anatomy of a Genocide”, Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, Francesca Albanese.
[5] “Plausibilità di genocidio ma non cessate il fuoco, le misure provvisorie in Sud Africa v. Israele”, Simone Orbitello, opiniojuris.it.
[6] “Is Israel Losing Sight of Its Long Game?”, Raphael S. Cohen, foreignaffairs.com.
[7] “The Only Way for Israel to Truly Defeat Hamas”, Ami Ayalon, foreignaffairs.com
[8] “Israel Knew Hamas’s Attack Plan More Than a Year Ago, Ronen Bergman and Adam Goldman”, nytimes.com
[9] “Who was Mohammad Reza Zahedi, an Iranian general killed by Israel in Syria?”, Maziar Motamedi, Aljazeera.com
[10] “Israel Unleashed?”, Dalia Dassa Kaye, foreignaffairs.com.
[11] “When the Weak Attack the Strong: Failures of Deterrence”, Barry Wolf, RAND.
[12] “The Day After—in Israel”, Amos Yadlin, foreignaffairs.com.
[13] “What Palestinians Really Think of Hamas”, Amaney A. Jamal and Michael Robbins, foreignaffairs.com
Foto copertina: Israeli soldiers from the Golani Brigade take part in a military training exercise in the Israeli-annexed Golan Heights near the border with Syria on January 19, 2015. Iran confirmed today that a general of its elite Revolutionary Guards died in an Israeli strike on Syria that also killed six members of Lebanese militant group Hezbollah. AFP PHOTO / JACK GUEZ (Photo credit should read JACK GUEZ/AFP via Getty Images)