Crisi senza precedenti tra Stati Uniti e Israele


Lo scorso 25 marzo, il Consiglio di Sicurezza ha approvato la risoluzione, presentata dalla delegazione mozambicana, con cui le Nazioni Unite chiedono l’immediata cessazione dei combattimenti tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Determinante è stata la decisione degli Stati Uniti di astenersi, rinunciando al loro diritto di veto, ponendo fine ad oltre cinque mesi di stallo e rendendo evidente l’isolamento diplomatico di Tel Aviv.


A cura di Michele Gioculano

Pur non mutando la propria collocazione diplomatica rispetto alla contesa, la decisione di Washington di non opporsi ad un cessate il fuoco costituisce una presa di posizione storica nei confronti del suo principale alleato in Medio Oriente.
Settimane di accuse e ripicche tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il presidente Joe Biden sono culminate in un voto che segna il punto più basso mai raggiunto dalle relazioni tra i due paesi. Sia pur non avallando un atto effettivamente vincolante, il Dipartimento di Stato ha deciso, di manifestare, per la prima volta in un consesso internazionale, il proprio plateale dissenso nei confronti della conduzione delle operazioni da parte di Israele.
Infatti, l’annuncio di voler condurre un’offensiva contro Rafah, unito al ricorso a bombardamenti indiscriminati e alla scarsa considerazione degli effetti del conflitto sulla popolazione civile, ha suscitato un’ondata di sdegno e disapprovazione in tutti gli Stati Uniti, oltre che nel resto del mondo, portando la Casa Bianca a negare a Tel Aviv il proprio, incondizionato, supporto.[1]

Benché conscio del grande peso simbolico dell’evento, Netanyahu ha stringatamente definito la decisione americana un “errore” che contribuisce unicamente ad avvantaggiare i terroristi di Hamas e a raffreddare i rapporti con gli alleati d’oltreoceano.
Tuttavia, l’accaduto potrebbe avere anche importanti ripercussioni sulla politica interna dello Stato d’Israele e sulla stabilità dell’esecutivo di unità nazionale retto proprio dal leader del Likud. Di fatti, un eventuale avvicendamento alla guida del Memshelet non solo non può essere esclusa a priori, ma potrebbe risultare particolarmente gradita a Washington.[2] L’astensione statunitense ha profondamente scorso la classe dirigente e i vertici militari israeliani, in quanto rappresenterebbe il primo tassello di una messa in discussione di un rapporto preferenziale su cui è fondata non solo la sicurezza ma la sopravvivenza stessa del paese.

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Un argomento non peregrino vista la ripetuta richiesta, da parte di numerosi deputati democratici, di sospendere l’invio di materiale bellico e munizioni ove Tel Aviv dovesse rifiutarsi di sospendere le ostilità. Pur avendo ripetutamente irritato gli Stati Uniti nel corso della sua lunga carriera, mai le discusse politiche di Netanyahu avevano determinato una crisi tanto significativa in un momento tanto delicato.[3]
Con ogni probabilità, vi è più di un motivo che ha spinto la Casa Bianca a compiere un atto di tale portata. In primo luogo, gli Stati Uniti desiderano venga stabilita una tregua umanitaria che conduca al rilascio degli ostaggi nelle mani di Hamas e, successivamente, ad un cessate il fuoco continuato volto all’avvio di trattative politiche per una soluzione mediata del conflitto. Ciò consentirebbe di stabilizzare il quadrante mediorientale e di concentrare nuovamente gli sforzi del Dipartimento di Stato e del Pentagono sul conflitto russo-ucraino, decisamente più importante per la politica estera americana. In secondo luogo, il presidente Biden ha chiaramente avvertito il peso delle molte pressioni internazionali e, soprattutto, interne che reclamavano una netta condanna da parte sua.
A pochi mesi da un esiziale confronto elettorale con l’ex presidente Donald Trump, già dato per favorito, l’amministrazione non può certo permettersi di irritare l’elettorato democratico, particolarmente sensibile rispetto al tema della salvaguardia dei diritti umani, così come potrebbe beneficiare da una presa di posizione contro un leader considerato corrotto ed estremista. Ad ogni modo, anche sulla base delle ultime dichiarazioni del governo israeliano, sembra ancora lontano il raggiungimento di un accordo per una tregua umanitaria, da mesi oggetto di discussione e della mediazione di diversi attori, tra cui Egitto e Qatar. Parimenti, è improbabile che la sola astensione degli Stati Uniti in consiglio di sicurezza possa muovere una importante massa di consensi a favore di Biden.
Per superare le diffidenze connesse all’età avanzata e alle numerose gaffe, il Presidente uscente dovrà compiere passi molto più importante per riguadagnare il sostegno della maggioranza del Paese.[4]

Tuttavia, al di là delle molte ragioni contingenti, il ricorso ad un gesto così eclatante e significativo, proprio nell’assise ove gli Stati Uniti si erano sempre posti in sua difesa, dovrebbe indurre Israele a riflettere sull’intervento di un cambiamento più profondo di quanto si possa pensare. Volendo leggere la questione in prospettiva, è possibile intravedere, in questa astensione, i segni di un vero e proprio cambio di paradigma della politica americana o, quantomeno, di una parte di essa. Sebbene siano oramai lontani i giorni in cui Donald Rumsfeld, allora consigliere del presidente Ronald Reagan, disse di Saddam Hussein «È un bastardo, ma è il nostro bastardo», il Dipartimento di Stato ha continuato a lungo ad adottare questo tipo di filosofia nei confronti di paesi alleati ma non propriamente aderenti a valori liberali e democratici. Un cinismo che, in molti casi, tra cui quello dello stesso Hussein, è finito per ritorcersi contro gli stessi Stati Uniti, dilaniando la loro immagine tanto sul versante interno quanto su quello internazionale.[5]
Forse ciò ha indotto un lento ma inesorabile mutamento all’interno dell’opinione pubblica americana, non più disposta ad accettare gli oneri della politica di potenza, tale da condizionare o, per lo meno, di calmierare l’agire dell’esecutivo, dando vita ad un indiretto strumento di “moralizzazione” della linea diplomatica. Di conseguenza, se desidera restaurare pienamente il suo sodalizio con Washington, è necessario che Israele comprenda chiaramente che d’ora in poi, dovrà agire entro limiti ragionevoli, giustificabili e politicamente sostenibili da parte degli Stati Uniti. Infatti, l’inaspettata astensione in Consiglio di Sicurezza, ove non dovesse sortire alcun effetto, potrebbe essere solo il primo passo, non solo di un antagonismo tra due leader determinati a conservare le rispettive cariche tenendo a bada gli umori della piazza, ma di una netta frattura tra due partner storici. È comunque probabile che Netanyahu, ormai palesemente inviso alla Casa Bianca, anziché compiere un passo indietro, tenti di resistere fino alle prossime elezioni americane nella speranza che un ritorno di Trump determini un contegno più favorevole da parte degli Stati Uniti.


Note

[1] “Stati Uniti e Israele: Qualcosa è cambiato?”, Ispi.
[2] “Benjamin Netanyahu’s American crisis”, Mehul Srivastava, ft.com.

[3] “Perplexed by ‘overreaction,’ White House says PM stirring crisis in US-Israel ties”, Jacob Magid, timesofisrael.com.
[4] Tra Stati Uniti e Israele non è la solita crisi”, Mario Giro, domani.it.
[5] “Conspiring Bastards”: Saddam Hussein’s Strategic View of the United States”, Hal Brands & David Palkki, jstore.org.


Foto copertina: Joe Biden presidente Stati Uniti e Benjamin Netanyahu Primo Ministro israeliano