Eduard Strel’cov, il Pelé russo

 


Eduard Strel’cov uno dei più grandi calciatori russi piegato dalla storia. Dai trionfi sportivi alla vita nei gulag.


 

Nasce nella capitale russa[1] il 21 luglio del 1937 un uomo che era destinato all’Olimpo del calcio: Ėduard Anatol’evič Strel’cov[2]. Di umili origini, Ėduard, era operaio alla Frezer – una fabbrica industriale di falegnameria; dotato di una corporatura poderosa e allo stesso tempo scattante si fece notare, fin da piccolo, per la sua prestanza fisica e iniziò  la sua carriera calcistica all’età di soli diciassette anni: un prodigio. Si legò al Torpedo Mosca, unica squadra per la quale avrebbe giocato in tutta la sua vita, e dal 1954 al 1958 collezionò 89 presenze per 48 reti. Partecipò ai Giochi olimpici del 1956, che, per quanto riguarda il calcio, si giocarono all’Olympic Park Stadium a Melbourne, in Australia, e trascinò  la squadra fino alla finale; nonostante non disputò  la partita, l’Unione sovietica riuscì a vincere e la medaglia d’oro che fu consegnata a tutti i partecipanti della squadra di calcio del torneo maschile[3]. Strel’cov si fermò  alla semifinale contro la Bulgaria, non giocò  mai la finale: Gavriil Kachalin – ct della nazionale sovietica – con l’infortunio di Ivanov ritenne opportuno lanciare titolare la coppia di attacco di un’altra squadra; lasciò  Strel’cov in panchina, preferendo l’affinità alla tecnica pura e assoluta. La vittoria della partita valse l’oro e l’Unione Sovietica terminò i Giochi della XVI Olimpiade con successo su tutti i fronti: 37 ori, 29 argenti e 32 bronzi, per un totale di 98 medaglie e un distacco dagli acerrimi avversari, gli Stati Uniti, di 24 medaglie.

Il rifiuto al trasferimento e l’accusa di molestie

Il rifiuto del passaggio alla CSKA MoscaProfessional’nyj Futbol’nyj Klub Central’nyj Sportivnyj Klub Armii[4] – e alla Dinamo Mosca – Futbol’nyj Klub Dinamo Moskva5 – portò un certo malumore ai vertici societari sovietici. Dal 1917, infatti, il CSKA Mosca era di proprietà delle Forze Armate e per questo la società era denominata ‘Armata Rossa degli Operai e dei Contadini’; mentre la Dinamo Mosca era di proprietà della prima polizia segreta Čeka. Nel ’58 Ėduard Strel’cov fu all’apice della sua carriera: l’anno precedente figurò  al settimo posto per il Ballon d’Or, vinto da Alfredo Di Stefano. Convocato nello stesso anno al mondiale dall’ancora commissario tecnico Kachalin, il 25 maggio prese congedo, una sera, per partecipare ad una festa nella dacia di Eduard Karakhanov – un ufficiale militare rientrato dalla propria missione; cominciarono a circolare accuse attorno al giocatore, tra le quali quella di aver commesso atti di violenza carnale nei confronti di una giovane donna, Marina Lebedeva. I due, secondo la ricostruzione della lettera di denuncia della donna stessa, trascorsero la serata insieme e lei fu forzata sessualmente tanto da riportare dei lividi sul proprio corpo. Le voci intorno alla questione furono innumerevoli, ma quella forse più vicina alla verità incolpava unicamente Stret’cov di essersi rivolto in modo disdicevole nei confronti della figlia di Yekaterina Furtseva, pronunciando ad un amico le seguenti parole: “Non sposerei mai quella scimmia”.[5]

A valle dell’atteggiamento di leggerezza e libertà da parte del giocatore nell’ultimo anno la classe politica dell’Unione Sovietica si dimostrò  piuttosto indispettita, per questo decise di imprigionarlo a Mosca, nella prigione di Butyrka[6]. Ėduard fu interrogato e torturato dal KGB[7] fino a quando fu convinto a firmare una confessione che riguardava l’atto di violenza, una sorta di patteggiamento che, a detta del governo, doveva servire per chiudere la questione in modo dignitoso e silenzioso, di modo che potesse partecipare alla Coppa del Mondo in Svezia: non fu così; Strel’cov non venne rilasciato, nonostante, pare, fosse innocente e fosse supportato anche dal ritiro di denuncia da parte di Marina, che non ritenne necessario tutto questo accanimento nei confronti del giocatore. Il processo lampo iniziò  il 23 luglio, due mesi dopo l’accaduto, e terminò  ventiquattro ore dopo; la sentenza previde dodici anni di reclusione e lavori forzati in Siberia, nei gulag.

Gli anni nel Gulag

Anche sul fronte giornalistico la posizione fu subito netta: Ėduard Strel’cov era colpevole. Il periodo passato nel gulag[8] scavò  un segno indissolubile nella sua vita; il campo, con lo scopo di riformare, prevedeva alcuni tipi di lavoro correttivo come tagliare e trasportare la legna o la manovalanza in miniera. I ritmi massacranti sommati alle condizioni disumane crearono un ambiente ostile e ben lontano dagli obiettivi dichiarati e millantati: le temperature ostiche e rigide, l’inadeguatezza di strumenti e vestiti, la scarsità di cibo sono solo alcuni esempi di ciò  che segnò  la vita di Ėduard Strel’cov e di 18 milioni di persone detenute per una serie di motivi opinabili.


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Il ritorno al calcio

Fu rilasciato nel 1963, dopo che Leonid Brežnev rimosse la sua squalifica a vita, applicata da Nikita Kruscev, e gli fu concesso di lasciare l’Ok – squadra aziendale del Dipartimento di Supervisione Tecnica della Zil – per tornare a giocare con la Torpedo, la sua seconda casa, dal ’65 al ’70. Vinse il campionato sovietico con 133 presenze complessive e 51 reti, arrivando a giocare con la maglia bianconera complessivamente 222 partite e 99 reti; fu anche dichiarato miglior giocatore sovietico negli anni ’67 e ’68, ciò gli valse fama e affetto da parte dei suoi tifosi, tanto che lo stadio della Torpedo fu intitolato con il suo nome al termine della sua vita. Fece, poi, ritorno in nazionale dove arrivò  a 25 reti su 38 presenze, raggiungendo i numeri di campioni come Blokhin, Protasov e Ivanov.

Strel’cov non ebbe vita lunga, morì a cinquantatré anni, il 22 luglio del 1990, a causa di un cancro che interessò le vie respiratorie danneggiate, probabilmente, dal lavoro in miniera negli anni del gulag. Lasciò  la sua famiglia con una confessione di innocenza sul letto di morte, rompendo il silenzio mantenuto con sobrietà e decenza fin dall’inizio del processo.

Nikita Pavlovich Simonyan[9], suo compagno di squadra in nazionale, fu titolare nella finale delle Olimpiadi del ’56; alla cerimonia di premiazione, con un gesto nobile, regalò  la propria medaglia a Ėduard, ma quest’ultimo rifiutò  cortesemente affermando: “Non preoccuparti Nikita, ne ho di tempo per vincere tanti altri trofei”.[10] Simonyan, a seguito delle vicende che subì Ėduard, pare abbia dichiarato che se non fosse stato per questi sette anni senza calcio, sarebbe stato secondo solo a Pelé.


Note

[1] Mosca, dal 1920 circa.
[2] In russo: Эдуа ́рд  Анато́льевич  Стрельцо́в .
[3] Componenti della squadra di calcio del torneo maschile dei Giochi Olimpici del 1956 furono: Anatolij Bašaškin, József Beca, Jurij Beljaev, Anatolij Il’in, Anatolij Isaev, Valentin Koz’mič Ivanov, Lev Jašin, Boris Kuznecov, Anatolij Maslënkin, Igor’ Netto, Michail Ogon’kov, Aleksej Paramonov, Anatolij Porchunov, Boris Razinskij, Vladimir Ryžkin, Sergej Sal’nikov, Nikita Simonjan, Ėduard Strel’cov, Boris Tatušin, Nikolaj Tiščenko.
[4] In russo: Профессиональный Футбольный Клуб ЦСКА. 5 In russo: Динамо Москва Футбольный клуб.
[5] Marco Iaria, Donne, vodka e gulag. La vita spezzata di Eduard Streltsov, il campione, Ultra, in Ultra Sport, Roma, 2018.
[6] In russo: Бутырская тюрьма o, colloquialmente, Бутырка, nel quartiere di Tverskoj, a nord.
[7] Comitato per la Sicurezza dello Stato – Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, in russo:Комитет государственной безопасности, КГБ.
[8] In russo: ГУЛаг – Главное управление исправительно-трудовых лагерей.
[9] In armeno: Մկրտիչ Պողոսի Սիմոնյան
[10] Marco Iaria, Donne, vodka e gulag. La vita spezzata di Eduard Streltsov, il campione, Ultra, in Ultra Sport, Roma, 2018.


Foto copertina:Eduard Strel’cov