Erdoğan e il futuro della questione curda: da Erbil a Raqqa

Le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (SDF) festeggiano la conquista di Raqqa nella piazza principale della città, 18 ottobre 2017.

Novità importanti per la politica estera della Turchia dopo il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno e la liberazione di Raqqa dall’Isis.

Gli eventi delle ultime settimane hanno rappresentato un banco di prova importante per l’approccio del Presidente turco Erdoğan all’annosa questione curda, ponendolo di fronte alla doppia sfida del referendum del 25 settembre sull’indipendenza del Kurdistan iracheno e della liberazione di Raqqa dall’Isis a opera dei miliziani curdi delle Forze Democratiche Siriane (SDF), annunciata il 17 ottobre.

Questi due eventi avranno inevitabilmente delle ripercussioni a livello regionale per la Turchia, andando a modificare le carte in tavola sia sul fronte della guerra civile siriana, che su quello iracheno.

Ma procediamo con ordine, sottolineando innanzitutto che la questione curda è da sempre un problema di natura ibrida per Ankara, a cavallo tra la politica interna e la politica estera. La principale preoccupazione di Erdoğan è infatti che, l’eventuale creazione di uno Stato indipendente curdo nel nord dell’Iraq o lungo il confine turco-siriano possa rappresentare una potenziale minaccia alla stabilità interna della Turchia, riaccendendo le velleità separatiste della minoranza curda nella parte sud-orientale del Paese.

Dal suo arrivo al potere nel 2002, il leader del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha innegabilmente compiuto notevoli passi avanti, soprattutto nel settore dei diritti linguistici della comunità curda, tant’è vero che una fetta non trascurabile della sua base elettorale è composta da cittadini di tale origine etnica[1].

Tuttavia, è altrettanto vero che il periodico intensificarsi dello scontro intestino nel sud-est del Paese con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato un’organizzazione terroristica tra gli altri anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, si è costantemente ripresentato come fonte di discordia o addirittura come oggetto di evidente strumentalizzazione a fini elettorali o di politica estera.

Già all’epoca dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, ad esempio, l’allora Primo Ministro turco si era opposto fortemente allo smembramento del Paese mediorientale, proprio nel timore che dalle sue ceneri potesse nascere uno Stato curdo-iracheno lungo il confine con l’Iran. Una simile entità statale, oltre a trovarsi nei pressi dei monti Qandil, storica roccaforte del PKK, avrebbe goduto anche di una considerevole base economica, grazie agli enormi giacimenti petroliferi di Mosul e Kirkuk.

Questa prospettiva non rappresentava solo, come detto, una minaccia per la sicurezza interna della Turchia, ma anche un notevole ostacolo alla grand strategy geopolitica “neo-ottomana” di Erdoğan, il quale considera tuttora tali territori come parte integrante della “Grande Turchia” disegnata ai tempi della guerra d’indipendenza da Mustafa Kemal Atatürk, di cui le potenze occidentali hanno impedito la nascita con il Trattato di Sèvres del 1920 e di cui il Presidente turco ambisce a rinverdire i fasti[2].

Per tutti questi motivi, i rapporti tra Ankara e il Governo Regionale Curdo (KRG) del Presidente Masoud Barzani sono da sempre risultati molto complicati. Tuttavia, ciò non ha comunque mai impedito ai rispettivi esecutivi di intrattenere un importante interscambio commerciale, anche in assenza di relazioni diplomatiche ufficiali. Inoltre, grazie soprattutto al lavoro dell’ex guru della politica estera turca, Ahmet Davutoğlu, nel 2009 si era persino giunti all’apertura di un consolato turco a Erbil, nonché a un accordo per il ritorno in Turchia di 34 ex miliziani “pentiti” del PKK, ai quali venne concessa l’amnistia per i reati commessi[3].

Seppur con i dovuti alti e bassi, Erdoğan aveva quindi ormai accettato l’esistenza di una regione autonoma del Kurdistan iracheno, riuscendo parallelamente a svincolarsi dall’Iraq per l’approvvigionamento di petrolio e a integrare questa sempre maggiore cooperazione energetica con il KRG nel quadro della collaborazione in funzione anti-PKK con il governo iraniano.

L’indizione del referendum per l’indipendenza di Erbil da Baghdad, annunciato da Barzani a luglio 2017, è stata una vera e propria doccia fredda per il Presidente turco, tornando a prospettare il superamento di quella “linea rossa” rappresentata dal riconoscimento dell’esistenza di uno Stato curdo con soggettività internazionale.

Ecco spiegata la dura reazione della Turchia alla consultazione referendaria curdo-irachena, con Erdoğan che ha dapprima schierato l’esercito turco al confine iraniano, dichiarandosi pronto a un’invasione in caso di necessità, per poi minacciare di “chiudere i rubinetti del petrolio[4] qualora il KRG non avesse fatto un passo indietro sull’indipendenza, affamando di fatto l’intera regione attraverso l’imposizione di sanzioni economiche.

La partita non è ancora conclusa, ma non c’è alcun motivo per dubitare che il Presidente turco farà tutto quanto in suo potere per evitare che il Kurdistan iracheno possa definirsi “Stato” e ricevere il riconoscimento da parte della comunità internazionale, con evidente rischio contagio nella parte sud-orientale della Turchia.

Ancora più complicata la questione riguardante la guerra civile siriana, che per essere compresa a pieno richiede un passo indietro fino agli anni ’90.

In quel periodo, Ankara e Damasco erano infatti ripetutamente state sull’orlo della guerra a causa del supporto logistico e finanziario fornito dal governo dell’allora Presidente siriano Hafiz al-Assad, padre di Bashar al-Assad, al PKK e al suo leader Abdullah Öcalan. Tale sostegno era terminato solo a seguito dell’accordo di Adana del 1999, con il quale la Siria riconosceva il PKK come un’organizzazione terroristica ed espelleva lo stesso Öcalan dal suo territorio, consentendone la cattura e l’imprigionamento da parte delle autorità turche.

Da allora la situazione era decisamente migliorata, ma la normalizzazione ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi avvenne soltanto dopo l’arrivo al potere di Erdoğan. Sulla base del principio degli “zero problemi con i vicini”, corollario della cosiddetta “dottrina della profondità strategica” di Ahmet Davutoğlu[5], l’allora Primo Ministro turco avviò infatti un processo di riavvicinamento diplomatico con tutti i Paesi mediorientali, riuscendo anche a seppellire le antiche ruggini con la Siria.

Sebbene la cooperazione commerciale fosse l’elemento pubblicamente più visibile degli accordi raggiunti tra i rispettivi esecutivi, il terreno politico comune su cui costruire questa nuova alleanza era stata proprio la lotta al PKK lungo il confine turco-siriano, nel timore che la nascita della già citata entità autonoma curda nel nord dell’Iraq scatenasse simili rivendicazioni da parte delle rispettive minoranze interne di tale etnia.

L’asse tra Erdoğan e Bashar al-Assad rimase solido attorno a questo pilastro fino allo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, quando iniziò a sgretolarsi rapidamente a causa della presenza nel nord della Siria della fazione di ribelli curdo-siriani del Partito dell’Unione Democratica (PYD) e dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), il cui obiettivo dichiarato era proprio la creazione di uno Stato indipendente curdo nel Rojava, esattamente lungo il confine con la Turchia[6].

Per questo motivo, Erdoğan ha sempre presentato gli eventi nel nord della Siria come una minaccia diretta alla sicurezza interna e alla stabilità dei confini della Turchia, assimilando i ribelli curdo-siriani al PKK e servendosi della retorica della lotta al terrorismo per giustificare ogni sua operazione agli occhi dell’opinione pubblica e della comunità internazionale.

La situazione si aggravò ulteriormente, non solo per Ankara, nel 2014, con l’ingresso del califfato nero nella partita siriana e con il successivo intervento degli Stati Uniti a sostegno proprio dei ribelli curdo-siriani nel quadro della cosiddetta “coalizione internazionale anti-ISIS”.

Ben presto, il Presidente turco iniziò a sostenere apertamente che anche “l’ISIS e il PKK sono la stessa cosa[7], fino ad aderire ufficialmente alla coalizione a guida statunitense, almeno a parole, nel luglio 2015. Tuttavia, a conferma delle reali intenzioni di Erdoğan di servirsi dell’ISIS come mero specchietto per le allodole, è sufficiente evidenziare che la maggior parte degli attacchi aerei turchi vennero rivolti contro le basi del PKK nei monti Qandil e contro le milizie dell’YPG nel Rojava[8].

La proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso fu però l’annuncio nel marzo 2016 da parte del PYD dell’unificazione dei tre cantoni curdi di Jazira, Kobane e Afrin nella neo-proclamata regione autonoma curda del Rojava.

A seguito di questo evento, Erdoğan era ormai deciso a intervenire in prima persona in Siria a difesa degli interessi nazionali turchi. Superato indenne il tentativo di colpo di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio, il mese successivo venne quindi avviata l’ “Operazione Scudo dell’Eufrate”, che sebbene avesse l’obiettivo dichiarato di combattere l’ISIS, mirava in realtà proprio a stanziare truppe turche a separare i territori sotto il controllo dei ribelli curdi nel nord della Siria.

Servendosi ancora una volta della retorica antiterroristica, il 25 aprile 2017 la Turchia lanciò poi una nuova serie di bombardamenti, colpendo sia l’YPG nel Rojava, dove le milizie armate del PYD stavano pericolosamente guadagnando terreno in direzione del fiume Eufrate, sia il PKK nella zona del Sinjar, che secondo Erdoğan rischiava di divenire “una nuova Qandil[9].

Questo è sempre stato il modus operandi di Erdoğan, e tale continuerà a rimanere. Del resto, la sperata svolta nell’approccio statunitense alla guerra civile siriana è stata quasi sorprendentemente delusa dall’annuncio da parte dell’amministrazione Trump della prosecuzione del sostegno ai ribelli curdi nel nord della Siria in funzione anti-Isis, con particolare riferimento proprio all’offensiva per la riconquista di Raqqa. Inoltre, pochi giorni dopo tali dichiarazioni, l’YPG ha annunciato la riconquista della città di Tabqa, a est di Raqqa e nei pressi del fiume Eufrate, aumentando ancora di più il malcontento del Presidente turco.

Nella medesima direzione delle precedenti iniziative turche in Siria è da intendersi anche l’operazione avviata il 7 ottobre nella provincia di Idlib, teoricamente volta a evitare la creazione di “un corridoio del terrore[10]di matrice jihadista al confine turco-siriano, ma in realtà nuovamente in funzione anti-curda.

Infine, il 17 ottobre è arrivata la notizia della liberazione di Raqqa dall’ISIS a opera delle Forze Democratiche Siriane (SDF), che altro non sono che un’unione delle milizie curde del PYD e dell’YPG.

Sebbene questa sia stato indubbiamente un duro colpo per Erdoğan, le modalità dell’annuncio, e in particolar modo i festeggiamenti da parte delle SDF a seguito della riconquista della città, potrebbero paradossalmente rivelarsi un regalo enorme per la politica estera del numero uno di Ankara. Infatti, i miliziani curdi hanno commesso un errore, esponendo nella piazza principale di Raqqa una gigantografia del leader storico del PKK, Abdullah Öcalan, che come detto è detenuto nelle carceri della Turchia fin dal 1999.

Questa mossa consentirà al Presidente turco di presentarsi all’incontro del 22 novembre con le controparti di Russia e Iran, organizzato nel quadro dei “colloqui di Astana” per la risoluzione della crisi siriana, con il coltello dalla parte del manico, potendo infatti sostenere di avere avuto ragione fin dall’inizio nel ritenere i ribelli curdo-siriani come una mera appendice del PKK.

Non è ancora ben chiaro cosa Erdoğan punterà a ottenere, né quanto Rouhani e soprattutto Putin saranno disposti a concedergli. Una delle poche cose certe è che nei giorni scorsi il Presidente turco è tornato prepotentemente a parlare della possibilità di un’operazione militare nel nord della Siria. Inoltre, se fino a questo momento l’etichetta posta da Ankara sulle milizie curdo-siriane non era stata considerata altro che un tentativo di strumentalizzazione per giustificare la propria campagna militare, il legame tra SDF e PKK sarà adesso innegabile per tutte le parti coinvolte, con il conseguente rafforzamento del potere contrattuale turco.

La questione curda è quindi destinata a rimanere ancora a lungo in cima all’agenda politica di Erdoğan, sia sul fronte della guerra civile siriana che su quello curdo-iracheno.


[1] {Cfr. Mahçupyan E., “Gülen, Erdoğan e i militari, la battaglia per lo Stato turco”, in Limes 10/2016, pp. 71-72.}

[2] {Cfr. Caracciolo L., “Gli imperi non vivono due volte”, in Limes, No 10/2016, pp. 16-19.}

[3]{Cfr. Baykal A., “Recep Tayyip Erdoğan”, International Affairs and Defence Section, 22/12/2009, pp. 9-10.}

[4] {“Dopo il voto in Iraq, Erdogan minaccia di affamare i curdi”, Il Foglio, 26/9/2017.}

[5]{Cfr. Murinson A., “The strategic depth doctrine of Turkish foreign policy”, Middle Eastern Studies, 42:6, 2006.}

[6]{Cfr. Ayman A. G., “The Arab Upheavals and the Turkish Perception vis-à- vis the West”, Arab Stud Q, No. 35, Vol.3, marzo 2013, pp. 305-323.}

[7]{“A Sisyphean Task? Resuming Turkey-PKK Peace Talks”, International Crisis Group, Crisis Group Europe Briefing No. 77, 17/12/2015, 4n10.}

[8]{Cfr. Gunter M. M., “Erdoğan and the Decline of Turkey”, Middle East Policy, Vol. XXIII, No. 4, 2016, pp. 128-129.}

[9]{Cfr. Coles I. & Davison J., “Turkish jets strike Kurdish fighters in Syria, Iraq’s Sinjar”, Reuters, 25/4/2017.}

[10] {“Siria: Erdogan «non permetteremo corridoio del terrore ai confini turchi»”, Euronews, 2/9/2017.}

Foto copertina: Le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (SDF) festeggiano la conquista di Raqqa nella piazza principale della città, 18 ottobre 2017.