Francesco Giorgino, Alto volume. Politica, comunicazione e marketing


Con “Alto Volume”, Francesco Giorgino giornalista, conduttore del Tg1, docente universitario alla Luiss e a Bari, editorialista, analizza la trasformazione della politica in comunicazione e in marketing.


Libro Consigliato:

 


Alto Volume. Politica, comunicazione e marketing di Francesco Giorgino con prefazione di Giovanni Orsina, edito da Luiss Press. Prima edizione il 2019 e seconda il 2020. Con “Alto Volume”, Francesco Giorgino giornalista, conduttore del Tg1, docente universitario alla Luiss e a Bari, editorialista, analizza la trasformazione della politica in comunicazione e in marketing.
Il libro può essere diviso in due parti. Nei primi capitoli Giorgino ci conduce, attraverso un’analisi dettagliata e scientifica, alla scoperta dei nuovi approcci comunicativi. Marketing, comunicazione e politica sempre più connessi tra loro, vengono spiegati considerando gli aspetti positivi e negativi: dalla “iper-comunicazione” che caratterizza la società politica post-moderna alle fake news e agli hate speech; dallo storytelling ed il politelling in particolare al ruolo dei new media e dei social network. Nell’ultimo capitolo, invece, egli ci fa conoscere i modelli comunicativi dei principali attori politici, recuperando sino all’ultimo momento utile l’attualità senza rinunciare ad uno sguardo retrospettivo lungo ed articolato.

In relazione all’emergenza coronavirus, abbiamo assistito ad una infodemia, cioè la diffusione di una quantità enorme di informazioni, provenienti da fonti diverse e dal fondamento spesso non verificabile. Questo ‘contagio informativo’, secondo Lei, ha avuto l’effetto di rendere più complessa la gestione dell’emergenza?

La complessità nella gestione dell’emergenza deriva da tre fattori. Il primo: si tratta di un’emergenza sanitaria, ma anche economica e sociale. La sua natura multidimensionale rende ancor più evidente la eterogeneità e l’interdipendenza funzionale dei problemi e delle soluzioni da produrre.
Del resto la complessità è anzitutto superamento del processo lineare, del rapporto di causa ed effetto tra i diversi fenomeni. Come sostiene Castells, la complessità è il tutto che è diverso dalle parti che lo compongono. Si pensi, solo per fare un esempio, al trade off tra sanità ed economia.
Il secondo fattore: viviamo nell’era postmoderna, nella quale si assiste al primato delle interpretazioni sui fatti e alla forza delle micro narrazioni del presente più che delle marco narrazioni del passato.
Micro narrazioni che, complici le dinamiche di trasferimento della conoscenza tipiche della platform society, hanno alterato la percezione del concetto stesso di verità.
Il terzo fattore: sono tanti gli attori dei processi di comunicazione istituzionale e politica in campo e questo rende ancor più difficile la ricerca di una piena sovrapponibilità tra la fase della codifica del messaggio (state a casa, vi concediamo qualche libertà, riapertura delle attività solo a determinate condizioni, ecc) e la sua decodifica da parte di riceventi, peraltro provati dal punto visto psicologico, oltre che economico.

Sempre in relazione all’emergenza coronavirus, quali sono stati, secondo Lei, i punti di forza e quali le debolezze della comunicazione attuata dal Governo e dalle opposizioni.

Nella prima fase, al netto di qualche errore inevitabile visto che ci si è trovati davanti ad un fatto di una potenza inaudita e soprattutto imprevisto e dopo un’iniziale sottovalutazione dei pericoli del contagio da Covid-19, la comunicazione istituzionale è stata nel complesso efficace, almeno rispetto al principale obiettivo da perseguire: far restare a casa gli italiani e far comprendere il fatto che l’unica arma per provare a sconfiggere il virus era quella del distanziamento personale. Lo chiamerei così e non con la formula “distanziamento sociale” poiché la socialità è stata comunque garantita grazie ad un uso diffuso e consapevole delle tecnologie digitali e grazie ad una capacità creativa in ciascun nucleo familiare.
Nella seconda fase, di cui non si vedono ancora bene i contorni e le progressioni in termini conativi, serve un piano di comunicazione ancora più strutturato. È necessario un piano che sappia differenziare i ragionamenti rispetto ai diversi ambiti dell’emergenza. Utili sono più conferenze stampa, tanti quanti sono i temi da affrontare in modalità differenti, a partire dall’uso più massiccio dell’infografica, soluzione che agevola la reale comprensione dei provvedimenti. In linea più generale poi va ricordato che il rischio più grande che si è corso e si corre è quello di trasformare la comunicazione istituzionale in comunicazione politica, con un’attenzione soprattutto alla massimizzazione del consenso.
Valutazione da estendere anche alle opposizioni, la cui intonazione complessiva è apparsa lontana dalla logica della risposta unitaria e del richiamo alla coesione nazionale. Ma le responsabilità di questa situazione forse non sono imputabili solo alle opposizioni, visto che esse hanno avuto poche opportunità di collaborare realmente alla stesura dei provvedimenti e visto che il ruolo principale lo ha svolto finora il potere esecutivo più che il Parlamento. Detto più semplicemente, non sono state sfruttate le opportunità di dare vita ad un dialogo fattivo, responsabile, schietto, ma soprattutto nell’interesse del Paese, tra maggioranza e opposizione, peraltro nemmeno coesa al proprio interno.

Nel suo libro fa riferimento al “neuromarketing” politico: conoscere le emozioni dell’elettore per adattarvi poi strategie di branding.
Secondo Lei, in una situazione come quella attuale (pandemia, prospettiva di crisi economica, perdita dei punti di riferimento…ecc.) su quale sentimento dovrà puntare la politica? Dovrà puntare sulla “paura” (votate per noi, perché se vincono gli altri è la fine…) o sulla “speranza” (votate per noi che siamo più bravi degli altri)?

Io direi che la paura serve solo a maturare la consapevolezza dei pericoli e dei rischi, ma non può certo assolvere ad una funzione di innesco delle scelte politiche e decisionali da parte degli elettori. Tanto più degli eletti. Dobbiamo esprimere il nostro consenso a chi sa fare meglio degli altri, a chi riesce a determinare una prospettiva di crescita, un modello al quale ispirarsi, una cultura da considerare come grande mappa concettuale capace di orientarci, non a chi ci fa meno paura degli altri.
Da questo punto di vista, la speranza è al contrario un concime ideale, un cemento efficace per generare cambi di paradigmi in grado di risolvere la questione delle questioni in politica: il match tra rappresentanza e governabilità. Llyotard ci ha detto già alcuni anni fa che nella postmodernità sarebbe stato percepito come buono non solo ciò che è effettivamente buono, ma soprattutto ciò che funziona. Il punto è come riconosciamo ciò che funziona e come lo separiamo da ciò che non funziona. Il punto è come ci relazioniamo alla cultura della performatività politica. Rispetto a queste finalità si può ricorrere, volendo seguire le euristiche di Kahneman, a risposte ad alto o a basso impegno cognitivo. Dipende da noi. Ma vale la pena di ricordare che in entrambi casi ci sono distorsioni che vanno conosciute e combattute.
Nel primo caso, infatti, prevale l’istinto che ha sempre il respiro corto. Nel secondo caso, invece, prevale, l’attrattività verso opinioni, proposte, soluzioni che riconosciamo come valide per il solo fatto che hanno superato la prova selettiva delle filter bubbles approdando nelle echo chambers.   

Un linguaggio “politicamente scorretto”, paga bene in termini di popolarità. Abbiamo assistito al fenomeno Trump, Salvini, Grillo e non solo. Perché, secondo Lei, questo stile dialettico funziona così bene?

Fermo restando che è difficile accostare Trump a Grillo, le rispondo che non credo che i politici che ha citato nella domanda abbiano vinto le elezioni solo per il linguaggio adoperato, che lei definisce “politicamente scorretto”. Alla base del loro successo ci sono ragioni esterne alle proposte politiche evidenziate nella sfera pubblica mediata ed altre più interne ai partiti e movimenti che essi rappresentano e ai modelli di leadership che essi incarnano.
Per quanto riguarda le ragioni esterne, non possiamo non partire dalla crisi del modello democrazia rappresentativa. Le risposte a questa crisi, che affonda le radici anche nell’enorme difficoltà in cui versava sul finire del secolo scorso il concetto di Stato-nazione, sono state di segno diverso: progetti di modica radicale delle carte costituzionali e dei modelli politici, iniezioni di democrazia diretta e di logiche di accountability e responsivness, ricorso ai frame del populismo e del sovranismo.
La globalizzazione, nel frattempo diventata ideologia, ha messo in crisi lo Stato Nazione, finché non è entrata essa stessa in crisi, sollecitando una domanda di confine alla quale è poi seguita un’offerta politica finalizzata all’enfatizzazione degli interessi nazionali. Trump e Salvini hanno performato benissimo dal punto di vista elettorale perché hanno saputo accreditare l’idea che nella gerarchia dei valori e delle priorità venissero prima di tutto gli interessi di americani da un lato e degli italiani dall’altro. Grillo, invece, ha sfruttato la sua popolarità per condurre una campagna antisistema che, almeno nelle intenzioni iniziali, aveva l’obiettivo di eliminare l’erba cattiva della politica come polity più che come policy, provando a generare la sensazione che il potere potesse essere davvero una questione collocabile dentro la dinamica orizzontale alla base della società. Abbiamo visto, tuttavia, che l’equazione “uno vale uno” non ha retto alla prova dei fatti e che inevitabilmente quando accedi al potere diventi tu stesso parte integrante del sistema e, quindi, difendi la necessità di procedere anche secondo una logica verticale. Logica che ti garantisce controllo e, per quanto possibile, stabilità e conformità alla linea politica. Movimenti senza leader non esistono, così come leader senza potere decisionale non possono essere considerati tali.  

Perché “populista” e “sovranista” sono, generalmente, considerati aggettivi negativi?

Perché non rientrano nella cultura mainstream. Credo sia opportuno però chiarire due cose. La prima: “populismo” e “sovranismo” non sono sinonimi, anche se generano una percezione indifferenziata del loro significato denotativo e connotativo. Il populismo si sviluppa sul presupposto di un deficit di democrazia, come dice Revelli: un deficit infantile, ovvero di una democrazia non ancora compiuta o un deficit senile quando, appunto, la crisi della rappresentanza si estende fino alla stessa forma democratica. Quello italiano è nato da un deficit di democrazia senile. Il sovranismo, invece, è un’offerta di politica nazionale a problemi che sono al tempo stesso nazionali e globali, è una risposta più circoscritta al tema delle disuguaglianze.
Non dimentichiamoci però che la parola “popolo” e la parola “sovranità” sono entrambe contenute nella nostra Costituzione. E non dimentichiamoci nemmeno che il concetto stesso di “democrazia” si fonda sul governo “del” popolo, “dal” popolo e “per” il popolo. È opportuno, quindi, non demonizzare troppo queste forme e concentrarci piuttosto sul modo in cui possano recuperare il valore dell’accorciamento della distanza esistente tra elettorato attivo e passivo, rifuggendo da eccessi, distorsioni ed esagerazioni.  

Nel secondo capitolo fa riferimento alle fake news e alla misinformation. Ci può spiegare la differenza?

Il tema dell’information disorder ha rappresentato un trend topic nel discorso pubblico, specie in tempi di coronavirus. Vanno messe in evidenza tre date. Nel 2013 il World Economic Forum ha inserito la disinformazione tra i rischi globali del pianeta. Nel 2016 l’Oxford Dictionary ha stabilito che la key word dell’anno dovesse essere “post truth”. Nel 2017 il Consiglio d’Europa ha elaborato un rapporto sul disordine informativo in cui si prevedono due dimensioni applicative. Da un lato la “disinformation”, ovvero la volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi dopo aver modificato idee ed opinioni individuali.
Dall’altro la “misinformation”, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente dall’azione dei produttori di contenuti. Il tema delle fake news va affrontato seguendo questa linea di demarcazione e ricordandoci che non c’è solo la polarità “vero-falso” da governare, ma anche quella “verità-verosimiglianza”. Polarità a volte anche più pericolosa della prima. Le soluzioni? Potenziare attività di fact checking e di “personal debunking”.
Guai ad immaginare che il problema possa essere contrastato solo agendo sulla sfera degli emittenti. Occorre un importante investimento culturale sui riceventi affinché si abituino a distinguere i contenuti veri da quelli falsi o verosimili e affinché riducano condivisioni di contenuti sul presupposto di un basso impegno cognitivo o di una fidelizzazione ideologica agli emittenti.   

Veniamo al consumo di notizie degli italiani. La maggior parte dei giovani italiani preferisce utilizzare Internet come luogo di informazione libero da censure, in nome di un pluralismo informativo, rispetto ai media tradizionali visti come comunicazione mainstream e quindi non sempre libera. Come si è arrivati a questo punto? Esiste un fondo di verità in quest’analisi?

Questa analisi è vera solo parzialmente. Quasi tutte le ricerche ci dicono sì che c’è molta capacità attrattiva del web 2.0 rispetto alle giovani generazioni, ma anche che la televisione rimane il mezzo d’informazione più utilizzato, indipendentemente dalla variabile anagrafica. Il tasso di penetrazione nella popolazione italiana della tv è ancora elevatissimo e non ha subito flessioni con l’arrivo e la diffusione dei new media. Nella comunicazione mainstream il mezzo che ha registrato più difficoltà è stata la carta stampata.
E ciò per due motivi: la difficoltà a sfruttare il valore della differenziazione funzionale dei singoli mezzi e la concorrenza dei quotidiani online. Detto questo, la storia dei media e dei newsmedia registra un miracolo: la teoria della transizione ed il principio di accumulazione.
Mai nessun mezzo di comunicazione e di informazione precedente è stato sostituito da quello successivo. I diversi media hanno convissuto e conviveranno ancora, sia pur attraverso processi di radicale trasformazione dovuti alla digital transformation.

Quali consigli darebbe ad un ragazzo che vuole intraprendere la carriera di giornalista.

È uno dei lavori più belli al mondo. È nato come mestiere, ma da anni è diventata una professione che si fonda su competenze tematiche, tecniche, relazionali (conoscenza dei pubblici), deontologiche. È un’attività che consiste nella capacità di mediazione tra la realtà rappresentata e la realtà rappresentabile, visto che opera in direzione della selezione del materiale notiziabile.
Fiuto, competenza interpretativa ed analitica dei fenomeni, curiosità, abilità descrittiva e narrativa, rispetto di chi ascolta, vede, legge: sono questi i requisiti del giornalismo, anzi dei giornalismi.
Il plurale è preferibile, visto che abbiamo tanti giornalismi quanti sono i mezzi e i modelli a disposizione dei newsmakers e quanti sono i pubblici disposti a fidarsi di questa importante organizzazione professionale e della sua funzione sociale. Non è difficile diventare giornalista oggi, visto che esistono molte scuole sostitutive del praticantato, ma di certo non è facile fare questo lavoro in via prevalente o esclusiva.
La crisi economica del 2008 ha colpito soprattutto il mondo dell’editoria e gli effetti ancora si fanno sentire. La passione per l’osservazione della realtà, per la sua interpretazione e la sua rappresentazione sono tuttavia un motore molto forte che, quando è in funzione, fa superare tutti gli ostacoli.


 Foto copertina: Francesco Giorgino


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