Le Filippine, la più antica democrazia del sud-est asiatico, hanno una lunga storia di violenze complesse e irrisolte tra vari clan, gruppi religiosi, politici e criminali. I conflitti vari e prolungati sono aumentati negli ultimi decenni, determinando una serie complessa di rimostranze e divisioni sociali tra la popolazione. Le organizzazioni estremiste violente sono in parte responsabili e beneficiarie di questa crescente tendenza alla violenza.
Negli ultimi due decenni, un mix eclettico di gruppi dell’estremismo islamico ha operato in tutte le Filippine. Questi gruppi sono instabili: si dividono frequentemente, occasionalmente convergono in alleanze tattiche e oscillano tra il commettere atti criminali, montare insurrezioni contro il governo e portare avanti il terrorismo come loro attività principale.
Sebbene varino nelle loro specifiche motivazioni e strategie, l’obiettivo politico generale è quello di espellere la maggioranza cristiana da Mindanao, il gruppo di isole più meridionali delle Filippine e stabilirvi uno stato islamico autonomo o indipendente per i musulmani filippini, che sono comunemente identificati come il popolo Moro[1] o Bangsamoro.
Sebbene alcuni gruppi siano riusciti a eseguire attacchi nella capitale Manila e, avventurandosi oltre i confini filippini, in Malesia e nei mari circostanti, la maggior parte delle attività terroristiche islamiste nelle Filippine è confinata a Mindanao e nel vicino arcipelago di Sulu.
Excursus storico sul nazionalismo islamico filippino
I musulmani nelle Filippine costituiscono il 5 per cento della popolazione totale dell’arcipelago. Sono geograficamente concentrati nelle isole di Mindanao e Sulu nelle Filippine meridionali, dove costituiscono circa il 20 per cento della popolazione della regione di oltre 16 milioni di abitanti. Appartengono a tre gruppi etno-linguistici maggiori: i Maguindanaoan nel bacino del fiume Pulangi nel Mindanao centrale, i Maranaos nella regione del lago Lanao nel Mindanao centrale e i Tausug nell’arcipelago di Sulu. I musulmani sono in maggioranza in cinque province (Maguindanao, Lanao del Sur, Basilan, Sulu e Tawi-Tawi) e nella città islamica di Marawi.
La rivendicazione storica dei musulmani su Mindanao e Sulu come loro patria precede la colonizzazione spagnola delle Filippine iniziata con l’arrivo del generale Legaspi nel 1565. Già nell’ultima parte del XIII secolo, le comunità islamiche locali e gli insediamenti di musulmani stranieri erano già fiorenti a Sulu. Il primo sultano di Sulu salì al potere intorno al 1450; Sharif Kabunsuan, che fondò il sultanato di Maguindanao, giunse a Mindanao intorno al 1515. Così, molto prima che gli spagnoli consolidassero il loro controllo sulla parte settentrionale delle Filippine, l’Islam prosperava nelle isole meridionali e i sultanati di Sulu e Maguindanao erano già ben organizzato. Per tre secoli i musulmani del sud resistettero con successo alle incursioni dei colonizzatori spagnoli, che riuscirono a stabilire un saldo punto d’appoggio solo nel nord cristiano. Gli spagnoli si riferivano ai musulmani del sud come “Moros”, un termine che in seguito divenne un simbolo di coraggio e nazionalità per i musulmani nelle Filippine. In quanto popolo invitto del sud, i Moros erano i padroni di Mindanao e Sulu, dove costituivano il 98% della popolazione[2].
Dal 1968 al 1971, organizzazioni politiche composte principalmente da studenti Moro, hanno condotto numerose campagne per il riconoscimento del diritto dei Moros all’autodeterminazione come popolo con una storia e un’identità distinte. Questi movimenti sono culminati nella costituzione del Moro National Liberation Front (MNLF), guidato da Nur Misuari, professore all’Università delle Filippine.
Centinaia di giovani Moros furono inviati in Malesia per l’addestramento paramilitare. Sabah, in Malesia, divenne il centro di rifornimento e comunicazione dei ribelli. Allo stesso tempo, sono aumentati gli incidenti violenti che hanno coinvolto gruppi paramilitari cristiani e moro. Questi incidenti acquisirono una dimensione più minacciosa nel 1971, quando la polizia filippina si schierò con i gruppi paramilitari cristiani nelle offensive contro i ribelli Moro[3].
La ribellione armata Moro, generata da un movimento di resistenza intellettuale è stata descritta come il più grande e persistente conflitto separatista armato nel sud-est asiatico. Mentre le sue radici e le sue manifestazioni sono state ben documentate in letteratura, gli imperativi ideologici che stanno dietro ad esso – in particolare il ruolo della religione nella comprensione e nell’articolazione del conflitto – rimangono un’area di ricerca sottosviluppata[4].
Abu sayyaf e il welfare islamico
L’Islam è stato adottato insieme alle tradizioni indigene e spirituali nelle comunità geograficamente divise. L’Islam popolare combinava tratti comunitari, di clan e fatalistici.
I principati che comprendevano un sultanato erano relativamente autonomi e conservavano le proprie strutture politiche e sociali. La leadership era affidata principalmente al Sultano, che era visto come un’entità sia spirituale che politica. Aveva un gabinetto di funzionari, che implementava un codice di leggi o tradizioni consuetudinarie tra i suoi componenti di pagani e musulmani. Ciascun sultanato governava una particolare comunità culturale[5].
Il nazionalismo etnico è una specie di nazionalismo poiché cerca di migliorare l’autonomia etnica e in alcuni casi di ottenere l’indipendenza politica e l’autodeterminazione. Questo sorge spesso in comunità con rimostranze politiche o malcontento, derivanti dal dominio delle minoranze etniche da parte del gruppo centrale.
Gli Abu Sayyaf sono concentrati nelle isole di Sulu e Basilan, con alcuni che operano nella città di Zamboanga, tutti di lingua Tausug e di etnia Tausug e Yakan. L’etnia è una base primaria di affiliazione.
Abu Sayyaf, che in arabo significa padre dello spadaccino, è il nome della più piccola ma anche più temuta e violenta di tutte le organizzazioni terroristiche filippine. Il gruppo è uno dei tanti movimenti musulmani radicali che collettivamente combattono da secoli per stabilire uno stato islamico indipendente nelle Filippine meridionali. Ciò che rende l’ideologia dell’ASG in qualche modo unica è il fatto che il suo fondatore, Abubakar Janjalani, è stato profondamente ispirato dall’Islam wahhabita come risultato della sua educazione religiosa e radicalizzazione in Arabia Saudita.
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L’importanza di un’ideologia di mobilitazione in relazione all’azione collettiva è stata da tempo riconosciuta. Nello scenario filippino, ad esempio, la religione ha svolto un ruolo dominante nelle campagne contro l’intrusione di diverse potenze straniere. Se esaminiamo la retorica della rivolta, sembra che ciò che è in questione, almeno nella mente dei dissidenti, non sia tanto un sistema economico contro un altro, ma una cultura o uno stile di vita contro un altro[6].
Il leader dell’ASG Ustadz Janjalani ha emesso un annuncio pubblico (senza data), in inglese, rivolto a tutta la popolazione di Mindanao e a quella della Repubblica delle Filippine. Si apre con un’espressione di speranza per la pace dopo la liberazione di Mindanao dalle grinfie dell’oppressione, della tirannia e dell’ingiustizia. Dice categoricamente che l’obiettivo è semplicemente quello di dire la verità detta dal profeta Maometto, per quanto amara possa essere, e non di confutare o criticare le credenze degli altri, specialmente quelle dei musulmani. Il documento sottolinea quattro verità fondamentali sull’Abu Sayyaf: It is not to create another faction in the Muslim struggle which is against the teaching of Islam especially the Qur’an but to serve as a bridge and balance between the MILF and MNLF whose revolutionary roles and leadership cannot be ignored or usurped. Its ultimate goal is the establishment of a purely Islamic government whose “nature, meaning, emblem, and objective” are basic to peace. Its advocacy of war is a necessity for as long as there exist oppression, injustice, capricious ambitions, and arbitrary claims impose on the Muslims. It believes that “war disturbs peace only for the attainment of the true and real objective of humanity, the establishment of justice and righteousness for all under the law of the noble Qur’an and purified sunnah[7].
Per Abu Sayyaf, l’Islam condanna l’anarchia e il disordine nella società.
Pertanto, il Corano (2:205) e la Sunnah del Profeta hanno sottolineato la necessità di organizzazione e autorità nella società musulmana. Questo accento si riflette vividamente anche in diverse dichiarazioni, nonché nel comportamento effettivo dei suoi compagni e negli ideali dei giuristi musulmani. Umar, il secondo califfo ha sottolineato che non potrebbe esserci società ideale senza un imam (sovrano) e non potrebbe esserci imam senza obbedienza (Al-Tantawi, 1959). Shafi’i, il famoso giurista, ha registrato lo stato d’animo della sua epoca (150-204 A.H.) affermando che c’è ijma (consenso) tra gli studiosi musulmani affinché ci sia un califfo (Imam) in una società musulmana. Allo stesso modo, sottolinea che l’assenza di un imam potrebbe solo portare al disordine.
Perché si possa parlare di una vera e propria efficacia dello Stato sociale islamico, è necessario porre in essere il Maslaha (benessere pubblico) alla sua gente. L’economia islamica si sforza di garantire che i meccanismi e gli imperativi necessari siano messi in atto con la guida della Shari’ah per raggiungere il benessere materiale e spirituale delle persone. L’Islam ha una serie di obiettivi e valori che abbracciano tutti gli aspetti della vita umana, compresi quelli sociali, economici e politici.
Poiché tutti gli aspetti della vita sono interdipendenti e lo stile di vita islamico è un insieme coerente, i suoi obiettivi e valori in un campo determinano anche gli obiettivi e i valori negli altri campi.
È obbligatorio per lo stato islamico promuovere la buona vita e il benessere della sua gente. Il Corano chiarisce che la missione del Santo Profeta è definita come una benedizione misericordiosa (rahmah) per tutta l’umanità (2:107). Alcune manifestazioni di queste benedizioni misericordiose sono dichiarate vividamente nel Corano. Questi includono, tra gli altri, la promozione della buona vita (hayah al-tayyibah) e del benessere (falah), l’alleviamento delle difficoltà, la creazione di una realtà che abbracci la prosperità, il mantenimento di un clima di amore ed affetto e garantire la libertà affinché venga schiacciata la corruzione morale[8].
Quindi, tutte le istituzioni, compreso lo Stato, dovrebbero riflettere un carattere misericordioso e provvedere al benessere di tutti[9].
La strategia per garantire il benessere nell’Islam consiste nell’armonizzare la ricerca spirituale e materiale della vita. Tutti gli sforzi umani, siano essi obiettivi materiali (economici), sociali, educativi e scientifici, sono spirituali fintanto che sono conformi alle ingiunzioni della Shari’ah. Nello stato islamico, la base della Shari’ah è la saggezza e il benessere delle persone in questo mondo e nell’aldilà.
Il concetto di benessere non può essere né esclusivamente mondano, né puramente nell’aldilà, ma piuttosto complementare sia per raggiungere il massimo benessere in questa vita (materiale) che nell’altra (spirituale).
Il processo di costruzione per la pace e l’incompatibilità con il contesto locale
Il conflitto tra il governo della Repubblica delle Filippine (GRP) e il popolo Moro va avanti da oltre mezzo decennio. Pur essendo una delle lotte per l’indipendenza più prolungate nella storia del mondo, il conflitto con i Moro ha attirato un’attenzione internazionale significativa solo all’inizio del secolo, allertata dall’ascesa dell’estremismo islamista nell’area. Le violente campagne di gruppi ribelli come Abu Sayyaf Group (ASG), Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (BIFF), Maute Group o Daulah Islamiyah che hanno giurato fedeltà allo Stato islamico di Iraq e Siria (ISIS) nell’ultimo decennio, hanno trasformato la percezione del conflitto da una questione interna a una preoccupazione per la sicurezza internazionale. Pertanto, dall’inizio degli anni 2000 gli sforzi delle Filippine per contrastare il terrorismo sono stati sostenuti da vari attori internazionali per aiutare la risoluzione del conflitto, in particolare gli Stati Uniti d’America. Tuttavia, questi violenti gruppi estremisti islamici sono solo alcuni tra i tanti gruppi di ribelli coinvolti nel conflitto. La ricerca delle Filippine per una pace sostenibile nella regione richiede di stabilire una comprensione reciproca con vari attori violenti.
Il conflitto prolungato e la questione Bangsamoro di lunga data nelle Filippine rimangono irrisolti. Sono passati anni dalla firma del FAB[10] e, sebbene gli elementi dell’accordo di pace siano in fase di attuazione, la strada da percorrere è ancora lunga. Tuttavia, la pace è un gioco lungo e, in particolare, costruire un processo di pace duraturo e sostenibile, sembra molto difficile.
Pur rappresentando una minoranza all’interno di un gruppo minoritario, gli estremisti islamici hanno la capacità di far deragliare il processo di pace.
Note
[1] I termini “musulmano” e “moro” sono stati usati in modo intercambiabile. Il primo si riferisce a un’identità religiosa universale, mentre il secondo denota un’identità politica distinta dai popoli islamizzati di Mindanao. Gli spagnoli originariamente usavano il termine per i popoli di Mindanao che condividevano la religione dei Mori che un tempo avevano sottomesso la Spagna. Moro è stato usato nello stesso modo dispregiativo del termine Indio per i filippini che hanno convertito al cristianesimo. Tuttavia, con l’atteggiamento di autoaffermazione espresso dal MNLF nei primi anni ‘70, il termine Moro ha acquisito connotazioni positive tra i giovani musulmani. Esprimeva il carattere distintivo di un popolo che aveva resistito alla dominazione straniera. Usato insieme a una parola malese, Bangsa (nazione) come in “Bangsamoro”.
[2] Abinalez, Patricio. 2000. Making Mindanao: Cotabato and Davao in the Formation of the Philippine Nation-State. Manila: Ateneo de Manila University Press.
[3] George, T. J. S. 1980. Revolt in Mindanao. Kuala Lumpur: Oxford University Press.
[4] Ahmad Aijaz, Class and Colony in Mindanao, in Rebels, Warlords and Ulama: A Reader on Muslim Separatism and the War in Southern Philippines, ed. Eric Gutierrez et al. (Quezon City: Institute for Popular Democracy, 1999), 5–6.
[5] Parouk Hussin, Challenge of War and Search for Peace, in the Road to Peace and Reconciliation: Muslim Perspective on the Mindanao conflict, AIM Policy Center, Philippines, 2003. Pag. 10-33.
[6] Ahmad, A, Social Welfare: A Basic Islamic Value, Journal of Hamdard Islamicus, Volume XX, Number 3 (1997), retrieved 2005, from http://www.muslim-canada.org/articles.html [7] Bobb, Scott, Are Abu Sayyaf linked to Bin Laden?, VOA News, October 28, 2001.
[8] Umar M. Chapra (2002), The Islamic Welfare State and Its Role in the Economy, Development Issues in Islam, Vol.4, pp.355-388.
[9] L’Islam è indubbiamente interessato al benessere del popolo: lo si può vedere dalla missione del santo profeta come definita nel Corano che deve essere una benedizione misericordiosa per tutta l’umanità Rahmat li al-‘alamin (2:107). Alcune ulteriori spiegazioni sull’attuazione di queste nozioni sono chiaramente affermate in diversi versetti del Corano, tra cui: promuovere una vita buona e il benessere come menzionato nel capitolo due versetto settantasette: chiunque sia maschio o femmina, fa del bene ed è un credente. Bisogna alleviare la fame e la paura (106: 4) e (3) generare prosperità (7:58 ). Per raggiungere gli ideali di cui sopra, l’Islam offre molti percorsi, uno di questi è il sistema di welfare islamico costituito da zaka, shadaqa, infaq, hibah, waqf e qurban (immolazione). [10] Framework Agreement on the Bangsamoro (FAB). https://peacemaker.un.org/sites/peacemaker.un.org/files/PH_131308_AnnexPowerSharing.pdf
Foto copertina: Le truppe filippine si preparano a deporre rose bianche al Marawi Memorial per i commilitoni uccisi durante l’assedio di cinque mesi della città di Marawi, nel sud delle Filippine, da parte dei combattenti dello Stato Islamico.