Nove anni dopo essere stato sconfitto nell’est del paese, il Movimento del 23 marzo ha fatto parlare nuovamente di sé nel marzo 2022, attaccando le posizioni dell’esercito congolese. Questa rinascita è in parte legata alle promesse non mantenute di Kinshasa, ma anche al ruolo del Ruanda.
A cura di Hakim Maludi, tradotto da Roberta Zobi. Articolo pubblicato du AfriqueXXI[1]
Nove anni dopo la sconfitta militare contro l’esercito congolese e le forze della Monusco e la missione delle Nazioni Unite in Congo istituita nel 2009, l’M23 fa nuovamente parlare di sé nell’est del paese. Attaccando le posizioni delle forze armate della Repubblica democratica del Congo (FARDC) a Chanzu e a Runyonyi nella notte tra il 27 e il 28 marzo 2022 (bilancio ufficiale: 3 soldati congolesi uccisi e 17 feriti), il movimento ribelle ha dimostrato l’estensione della sua capacità di nuocere. Anche se sconfitto nel novembre del 2013 dopo 18 mesi di conflitto nel Nord-Kivu, l’M23 è ancora considerato una delle ribellioni più strutturate che hanno imperversato nell’est del paese dalla fine della seconda guerra del Congo[2].
Disertando i ranghi dell’esercito regolare per formare nel 2004 la ribellione del Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP)[3], dei soldati congolesi tutsi avevano portato alla luce frustrazioni identitarie alimentate da molto tempo. In nome della difesa dell’integrità del loro popolo, giudicato emarginato dallo Stato centrale ma anche minacciato dai genocidi ruandesi hutu venuti a rifugiarsi nell’est del Congo nel 1994, gli ammutinati hanno condotto per 5 anni una guerra contro Kinshasa occupando vasti territori del Nord-Kivu.
Condotto da comandanti come Bosco Ntaganda detto “terminator”[4] e Laurent Nkunda, il CNDP è stato accusato di numerosi massacri contro le popolazioni civili. Il 23 marzo 2009, in seguito ad accordi di pace firmati con il governo congolese, i circa 6200 combattenti del CNDP sono stati reintegrati nell’esercito regolare sperando in un riconoscimento ufficiale del loro movimento sullo scacchiere politico nazionale. Ma le rivendicazioni dell’ex CNDP non sono mai state onorate dallo Stato. Questo ha spinto i comandanti tutsi a rivoltarsi nuovamente nella primavera del 2012 e a formare il Movimento del 23 Marzo (o M23), in riferimento agli accordi di pace del 2009.
“Emarginati da decenni”
Laurent Nkunda è stato arrestato il 22 gennaio 2009 “mentre fuggiva in territorio ruandese”, avevano precisato le forze congolesi e ruandesi in un comunicato congiunto. L’arresto è avvenuto 2 giorni dopo il lancio dell’operazione militare congiunta FARDC-FAR (forze armate ruandesi) battezzata “Umoja Wetu”, concepita con l’obiettivo di rintracciare i ribelli delle forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR) nel Kivu. Presente nella Repubblica democratica del Congo dal 1994 e dal suo esilio dal Ruanda, questa ribellione hutu, che annoverava al suo interno dei genocidi, ha sempre costituito una minaccia per Kigali.
Dopo l’arresto di Laurent Nkunda, uno dei suoi cari, il generale Sultani Makenga, finora incaricato delle operazioni militari del movimento, prende il comando dell’M23. Quanto al ramo politico del movimento, è diretto da Bertrand Bisimwa da marzo 2013 e la destituzione del suo predecessore, Jean-Marie Runiga. Quest’ultimo è stato giudicato troppo vicino a Bosco Ntaganda, considerato ormai un traditore da una parte della ribellione rimasta fedele a Laurent Nkunda. In effetti, è grazie all’iniziativa di Ntaganda che gli accordi del 2009 furono firmati, nonostante l’ostilità di Nkunda e dei suoi sostenitori. Malgrado queste scissioni interne, il movimento continua a presentarsi come il difensore della minoranza tutsi dell’est del Congo.
“I nostri comandanti sono Tutsi e ne sono fieri, ma sono prima di tutto congolesi”, spiega oggi un dirigente del gabinetto politico dell’M23 che ha richiesto l’anonimato. “Loro hanno tutti una storia personale che li ha spinti a portare queste rivendicazioni legate al loro popolo, perché sono emarginati da decenni e i loro genitori, respinti ovunque, hanno vissuto nei campi profughi. Alcuni sono nati nei campi per rifugiati in Congo dopo che i loro genitori sono fuggiti dal genocidio in Ruanda, ma in realtà il nostro movimento comprende e accetta chiunque si riconosca nella nostra lotta. Non ci sono solo Tutsi nell’M23. Quanto al Ruanda, non ci sostiene. Ciò che è vero è che sono nostri fratelli e che sono naturalmente sensibili alla nostra causa.”
Il ruolo travagliato di Kigali
Un certo numero di combattenti dell’M23 è cresciuto in Ruanda, una parte di loro si è anche evoluta nei ranghi del fronte patriottico ruandese (FPR), il movimento di Paul Kagame il cui ramo militare ha fatto cadere il regime genocida nel 1994 – è il caso di Bosco Ntaganda.
Dalla nascita del CNDP, Kigali è sempre stato accusato di sostenere i movimenti ribelli d’influenza tutsi nel Nord-Kivu. Nel 2013, il governo americano aveva chiesto al Ruanda di porre fine al suo sostegno agli ammutinati dell’M23. Respinto sia dal governo ruandese che dai membri della ribellione, questo appoggio non ha mai fatto dubitare i militari congolesi.
“Kigali negava, ma a noi, al fronte, ci capitava di catturare dei combattenti ruandesi o dei soldati dell’M23 che erano passati dal Ruanda” spiega, sotto copertura dell’anonimato, un ufficiale congolese che aveva preso parte al conflitto nel 2013. “Il messaggio era di distruggere l’M23, punto! Non si trattava assolutamente di condurre la guerra fino al Ruanda, anche se, con le informazioni che avevamo, sapevamo perfettamente da dove e da chi venisse questa guerra. Il Ruanda è governato dai Tutsi, l’M23 è un ammutinamento di soldati congolesi tutsi, sono fratelli e parlano la stessa lingua[5], spesso avevano anche dei legami familiari in Ruanda.”
Durante la ripresa dei combattimenti, a fine marzo 2022, il governo militare del Nord-Kivu[6], ha annunciato la cattura di 2 elementi presentati come dei soldati ruandesi provenienti dai ranghi dell’M23. Se Kigali ha denunciato una messa in scena pur negando la loro appartenenza all’esercito ruandese (i due elementi erano stati in realtà arrestati un mese prima), il dubbio persiste a Kinshasa.
Per il gruppo di studi sul Congo (GEC), se il coinvolgimento del Ruanda non è stato dimostrato, potrebbe trovare una giustificazione nella lotta d’influenza alla quale il paese si dedica con l’Uganda da 25 anni nell’est del Congo.
“Un’altra possibilità, e il rischio maggiore, è che i combattimenti siano la manifestazione delle tensioni regionali. Dopotutto, noi sappiamo che il lancio delle operazioni congiunte tra l’esercito ugandese e congolese contro gli ADF (Allied Democratic Forces) nel novembre 2021 ha provocato l’ira dei responsabili a Kigali. La lite più recente tra i due paesi risale al 2019, quando il Ruanda ha accusato l’Uganda di ospitare i dissidenti; Kampala ha affermato che il Ruanda stava spiando e sequestrando persone nel suo paese. C’erano altri contenziosi, tra cui la costruzione di una ferrovia e la concorrenza sulle esportazioni d’oro dal Congo orientale. In seguito a queste dispute, il Ruanda ha chiuso il suo valico di frontiera critico con il suo vicino a Gatuna.”
Il deputato del territorio del Walikale (Nord-Kivu), Juvénal Munubo, ha deposto una “interrogazione orale con dibattito” all’ufficio dell’Assemblea nazionale per il ministro congolese della Difesa per capire le cause della ricomparsa dell’M23. “La delicatezza di questa mossa sta nel sapere se il Ruanda si trova dietro l’M23”, spiega. “Se il Ruanda è dietro questo movimento, vuol dire che la diplomazia tra Congo e Ruanda non è del tutto sincera. Eppure, siamo tutti membri dell’East African Community[7]. Quindi bisogna fare delle verifiche prima di affermare che l’M23 ha ancora beneficiato dell’appoggio del Ruanda, nonostante il fatto che Kinshasa l’ha già affermato. Di contro, se il Ruanda sostiene l’M23, allora la questione deve essere presa sul serio. Mi aspetto risposte a queste domande, ma il ministro della Difesa deve venire a rispondere all’Assembla nazionale.”
“Chiunque voglia la guerra, gliela diamo”
Fin dalla sua ascesa alla guida della RDC a gennaio 2019, il presidente Félix Tshisekedi aveva manifestato la sua volontà di riavvicinamento con il Ruanda, controcorrente di una larga parte dell’opinione nazionale che considera lo Stato vicino come bellicoso. Non esitando più volte a designare Paul Kagame come suo “fratello”, Tshisekedi aveva in particolare scatenato una viva polemica in Congo mostrandosi mano alla mano con il presidente ruandese in un incontro a Kigali nel 2019.
Concretizzato dalla firma di accordi economici a giugno 2021, questo sforzo di cooperazione tra i due paesi dipende dalla situazione della sicurezza nel Nord-Kivu. A febbraio 2022, Paul Kagame aveva minacciato un intervento militare ruandese sul territorio congolese, senza l’autorizzazione di Kinshasa, per combattere le forze ostili come le FDLR. “Il problema che abbiamo con la RDC, e insistiamo, sono le FDLR e coloro che cercano di coalizzare con le ADF contro il Ruanda. Noi abbiamo tempo per osservare, negoziare, ma per la nostra sicurezza, non abbiamo bisogno di un’autorizzazione per intervenire” aveva dichiarato, prima di concludere: “Vogliamo la pace per tutti nella regione, ma chiunque voglia la guerra, gliela diamo. Abbiamo professionisti formati per questo. Il Ruanda è di piccole dimensioni, la nostra dottrina è fare la guerra in territorio nemico quando ciò lo richiede.”
In occasione dell’apertura della dodicesima conferenza diplomatica in Kansha, qualche giorno dopo le sue dichiarazioni particolarmente mal percepite nella RDC, Félix Tshisekedi aveva ribattuto: “È irrealistico e improduttivo, se non addirittura suicida, per un paese della nostra subregione pensare che trarrebbe sempre dei dividendi intrattenendo conflitti o tensioni con i suoi vicini.
Un gruppo mai smantellato
L’M23 non si è sciolto dopo la sconfitta militare del 2013. Bertrand Bisimwa, il presidente del movimento, spiega la recente ripresa dei combattimenti grazie al rifiuto sistematico del governo di applicare gli impegni assunti dallo Stato congolese in occasione della firma degli accordi di Nairobi al termine del conflitto il 12 dicembre 2013.
Uno dei punti di crisi riguarda la smobilitazione dei miliziani e il ritorno nella RDC dei combattenti congolesi rifugiati nei paesi frontalieri. Questo punto è in cima alle richieste dell’M23. Ma per ora solo un centinaio di combattenti sono stati ufficialmente rimpatriati, di cui sessanta di provenienza dall’Uganda nel febbraio 2019. Di fronte alle difficoltà di smantellamento della ribellione, questa ha sempre costituito una minaccia per la sicurezza nel Nord-Kivu, come quando i combattimenti erano scoppiati sporadicamente nel febbraio 2017.
“Tutto ciò che sta accadendo oggi era prevedibile, si rammarica con il pretesto dell’anonimato un ufficiale del 42esimo battaglione commando delle unità di reazione rapida che hanno preso parte al primo conflitto contro l’M23 nel 2012-2013. Verso la fine della guerra, nel 2013, quando avevamo il sopravvento su di loro e li sentivamo senza forze, i nostri ordini erano di neutralizzare i loro comandamenti prima che attraversassero il confine con l’Uganda. Lo scopo era di decapitare questa ribellione il più presto possibile, perché si sapeva che avrebbe rischiato di ricostruirsi in futuro e di minacciare nuovamente la popolazione congolese. Se fossimo riusciti a fermarli in quel momento, sarebbe stata tutta una vecchia storia.”
“Quando abbiamo sconfitto l’M23, nel 2013, c’è stato un accordo firmato a Nairobi”, spiega il deputato Juvénal Manubo. “In quella dichiarazione c’erano una serie di impegni che Kinshasa doveva rispettare tra cui il rimpatrio dei veterani e un meccanismo di riconciliazione. Il problema è che con la fine del mandato di Kabila e l’arrivo di Tshisekedi nel 2019, il dossier M23 non è stato seguito né dal governo uscente né da quello entrante. Bisogna quindi capire che l’M23 sta ora cercando di farsi sentire facendo pressione su Kinshasa.”
“Siamo all’ora della scelta”
Il 23 aprile 2022, il governo congolese ha optato per una soluzione negoziata avviando colloqui con i rappresentanti di una decina di gruppi armati[8] attivi nell’est del Congo. Questa decisione faceva seguito al cessate il fuoco unilaterale deciso dall’M23 il 1° aprile. Tenuto sotto l’egida del Kenya a Nairobi e in presenza di osservatori venuti dall’Uganda, dal Ruanda e dalla Nazioni Unite, queste discussioni non hanno posto l’M23 al centro del dibattito. Il gruppo armato si è anche fatto escludere dal tavolo dei negoziati fin dal secondo giorno, su richiesta della RDC, a causa della rottura del cessate il fuoco nel Rutshuru: i FARDC hanno accusato l’M23 di aver “violato” la tregua dopo i combattimenti a Bugusa il 24 aprile 2022. Dopo questa iniziativa infruttuosa, regna l’incertezza sulla gestione della minaccia dell’M23 da parte di Kinshasa. Per il deputato Juvénal Munubo è tempo per il governo di optare per una soluzione ferma e risoluta, che sia negoziata o militare.
“Tutto dipende, ritiene, dal modo in cui i FARDC valutano le proprie capacità d’azione nei confronti di questo gruppo. Lanciando l’offensiva c’è davvero modo di mettere fine a questa minaccia? Siamo all’ora della scelta. O optiamo per la soluzione militare e andiamo fino in fondo senza alcuna possibilità di ritorno al tavolo dei negoziati. O ci rendiamo conto che non abbiamo mezzi sufficienti per condurre la lotta fino alla fine, e lì dovremo deciderci ad applicare gli accordi di Nairobi[9] e ritornare su punti sui quali il governo si era impegnato a lavorare.”
Note
[1] https://afriquexxi.info/article4984.html
[2] Conflitto tra Congo, Uganda e Ruanda prima di estendersi ad altri paesi limitrofi, tra il 1998 e il 2003
[3] Il movimento armato si doterà di un ramo politico diretto da Désiré Kamanzi a partire da febbraio 2009
[4] Bosco Ntaganda è stato trasferito alla Corte penale internazionale (CPI) dell’Aia dopo la sua resa nel 2013. Condannato per 18 capi d’accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è stato condannato a 30 anni di carcere dalla CPI nel novembre 2019
[5] Si noti che il kinyarwanda, anche se parlato dagli Hutu come dai Tutsi, è talvolta percepito erroneamente come esclusivamente tutsi da alcuni congolesi.
[6] Dal 6 maggio 2021 i governatori militari gestiscono le province del Nord Kivu e dell’Ituri al posto dei civili nell’ambito dello stato di assedio istituito dal presidente Félix Tshisekedi per lottare contro i gruppi armati attivi nelle due province.
[7] La RDC è diventata il settimo membro della Comunità dell’Africa orientale il 29 marzo 2022.
[8] Si tratta per la maggior parte di gruppi di autodifesa detti «Maï-Maï» che operano nel Sud Kivu.
[9] Si tratta degli accordi di Nairobi che hanno posto fine alla guerra contro l’M23 nel 2013.
Foto copertina: I ribelli del M23 in Congo