Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale -Vittorio Emanuele Parsi



[dropcap]Nell’opera[/dropcap] Titanic-il naufragio dell’ordine liberale, il lettore viene fatto metaforicamente salire sul ponte del celebre (e sfortunato) transatlantico che avrebbe dovuto essere il vanto del progresso occidentale del Novecento.


Libri Consigliati

 


Professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, insegna Relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze politiche e nella Facoltà di Lingue e letterature straniere. È direttore dell’ASERI dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Da questa posizione privilegiata l’autore, il Prof. Vittorio Emanuele Parsi, ci avverte che l’ordine internazionale liberale da tempo sta andando alla deriva, in direzione di un fatale iceberg a quattro facce. La prima di queste è il profondo cambio d’atteggiamento sulla scena globale degli USA, la cui lenta chiusura verso l’esterno ha lasciato spazio ad una nuova distribuzione del potere mondiale a beneficio di altri attori dal crescente peso geopolitico, su tutti Russia e Cina.
Uno scenario nuovo dunque, ma che deve convivere con la minaccia di una forma di terrorismo sempre più “polverizzata” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha completamente stravolto la percezione della realtà internazionale, soprattutto in Occidente.
Una dinamica che ha rimesso al centro la sicurezza del popolo, ormai letteralmente scomparso tra movimenti populisti sempre più aggressivi e oligarchie tecnocratiche e arroccate nei “palazzi”, col rischio abbandonare una vulnerabile cittadinanza smarrita a se stessa.
Ultima faccia dell’iceberg è la contestazione, o meglio, la revisione dell’ordine liberale dal suo interno, a partire proprio dagli USA, il grande paese che se ne fece artefice e garante dopo la vittoria sul nazifascismo.
A partire dagli anni Ottanta qualcosa è cambiato per sempre all’interno del modello politico-economico occidentale. L’avvento del neoliberalismo e l’entusiasmo seguito alla caduta del muro di Berlino si sono scontrati facendo sì che alla fine della 

Copertina libro. Mulino Edizioni.

Guerra fredda molte bellissime promesse non fossero mantenute. Un mondo più giusto, più sicuro e più ricco per tutti era quello che in molti si aspettavano dalla cessazione delle ostilità bipolari.
Un equilibrio del benessere e della pace avrebbe dovuto sostituire lo sfiancante equilibrio del terrore, ma Parsi dimostra che le cose non sono andate così. Titanic pertanto si pone come un appassionante viaggio all’interno di quell’ordine fatto di istituzioni, valori e principi che ha contraddistinto gran parte delle dinamiche occidentali, mostrandoci come determinati fattori ne hanno segnato la deriva verso un futuro pericoloso e dalle molte incognite. In questa intervista abbiamo approfondito alcuni di questi aspetti direttamente con l’autore senza rinunciare alle problematiche più attuali, la cui inedita dinamica rischia di aggiungere un’ulteriore minacciosa faccia all’iceberg. 

 

 

Professore, la metafora dell’ordine internazionale liberale che come il maestoso Titanic sta per schiantarsi contro un pericoloso iceberg, rende perfettamente l’idea della teoria esposta nel testo. A tal proposito, lei argomenta sin dalle prime pagine che tale deriva sia iniziata in particolare negli anni Ottanta con l’avvento progressivo dell’ordine globale neoliberale.
Quest’ultimo non è stato fermato nemmeno dalle gravi crisi economiche del nuovo millennio, e anzi pare ancora godere di buona salute. Per il “nostro” transatlantico si tratta di un impatto inevitabile o forse, intimamente desiderato?

Desiderato no di certo. E direi neppure inevitabile, ovviamente a condizione di tornare sulla rotta originaria, che era il frutto di una triangolazione concettualmente semplice ma delineata con rigore: controllare gli eccessi della sovranità attraverso il ricorso al mercato, controllare gli eccessi del mercato attraverso la sovranità e regolare il tutto attraverso il potenziamento delle istituzioni domestiche in senso democratico e la creazione di una nuova fitta rete di istituzioni internazionali. Lo scopo di quell’architettura che conosciamo come ordine internazionale liberale era quello di porre al riparo l’ordine delle società nazionali che lo componevano dai grandi shock che potevano scuoterli. La guerra, innanzitutto: si veniva da 2 guerre mondiali scoppiate in Europa in un quarto di secolo a causa dello scontro tra le sovranità statali, alla ricerca della supremazia e incapaci di mantenere un equilibrio di potenza. E la Grande depressione: dilagata nel mondo a seguito del crollo di Wall Street, che aveva dimostrato che i mercati non si autoregolano e che il loro disordine può travolgere economia, società, politica e istituzioni. Il disegno complessivo era quello di forze poderose che dovevano essere portate verso una finalità comune, senza che venissero, snaturate, come avviene nella formazione di un arco.
Non si spiega l’OIL senza capire immediatamente che era concepito a cavallo di un quadrivio: tra politica ed economia e tra ambito interno e ambito internazionale. Da qui la necessità non solo di creare un tessuto di istituzioni internazionali che potessero regolare le dinamiche tra Stati sovrani e le dinamiche di un mercato internazionale, ma anche di rafforzare il “libero mercato” e lo “Stato liberale”. Come? attraverso l’inclusione. La democrazia doveva includere le masse, fare in modo che il sistema rappresentativo e il gioco dei partiti includesse le masse, aprendo l’agenda ai loro diritti, alle loro aspettative, ai loro interessi.
Il mercato doveva offrire opportunità di crescita economica e di benessere anche a chi vi apportava lavoro e non capitale. In fondo si trattava di rendere “popolari” mercato e democrazia, e per fare ciò occorreva costruire una classe media che rappresentasse la spina dorsale tanto dell’uno quanto dell’altra: una classe media che era costituita dai ceti popolari “arricchiti” e istruiti. Se non torniamo sulla rotta giusta, allora l’impatto è certo. E lo stiamo vedendo persino ora.

 

Un’altra ragione della deriva che porta allo scontro risiede nelle promesse che dalla caduta del Muro non sono state mantenute dall’ordine internazionale liberale: un mondo più sicuro, giusto e ricco per tutti. Riguardo soprattutto ai primi due aspetti, quanto è rischiosa la nuova distribuzione del potere geopolitico tra USA, Russia e Cina da una parte e le cosiddette medie potenze con aspirazioni regionali dall’altra (es. Iran, Turchia, Israele, India e Corea del Nord)?

Premettiamo che la pandemia sta alterando il quadro. Ma riprenderemo il punto nell’ultima risposta. Quello cui stiamo assistendo in questi mesi e che potremmo ritrovare come esito nel prossimo futuro è l’accelerazione di un trend già in corso. Gli Stati Uniti avevano già cominciato a muoversi con scarso senso di responsabilità e di leadership dall’inizio della presidenza Tump.
E anche Obama aveva puntato molto più sulla dimensione domestica che su quella internazionale. Anche per tirare fuori il Paese dal disastro della crisi finanziaria del 2008. Quello che è cambiato molto tra Obama e Trump sono stati gli strumenti, e non è poco. Obama voleva ridefinire la relazione con la Cina, ma lo stava facendo attraverso la costruzione di una serie di trattati commerciali (transatlantico, transpacifico e panamericano) che cercavano di svuotare parzialmente il Wto, allo scopo di compensare il dumping sociale, giuridico e politico di cui Pechino si avvantaggiava.
Trump ha messo dazi e iniziato una guerra commerciale altalenante. Obama era critico con alleati europei dalla Nato, Trump ha parlato persino di “chiuderla”. Obama voleva ridurre impegno Usa in Medio Oriente, e per farlo ha cercato di allentare la tensione nell’area attraverso la storica firma del Jcpoa (il trattato sul nucleare iraniano) e frenando le politiche avventuristiche di Netanyahu e Mohamed Bin Salman. Trump ha denunciato unilateralmente il trattato, e appaltato il Medio Oriente alla gestione di Tel Aviv e Riad.
Ciò detto, errori gravi rimontano anche alla amministrazione di Obama: il più importante la gestione della rivoluzione e poi guerra civile siriana, che ha consentito alla Russia di tornare da protagonista nell’area e di dare vita a quell’instabile triangolazione con l’Iran e la Turchia che non era certo nell’interesse di Washington, oltre che non esserlo in quello del popolo siriano. Per noi europei in particolare, l’iperattivismo turco è molto pericoloso. Ankara si sta sistematicamente allontanando dalla Ue e dai Paesi membri oltre che dalla Nato (ma non dagli Usa).
Sfida gli interessi europei nel levante, utilizza i profughi come un’arma “biologica”, destabilizza e minaccia la Grecia e Cipro, va all’assalto delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale e centrale e cerca di condizionare la guerra civile libica. Oltre a evidenziare una involuzione autoritaria pericolosa e raccapricciante.
Di Israele preoccupa il fatto che, anche qui, l’involuzione autoritaria nei confronti della cospicua minoranza araba e verso le popolazioni palestinesi dei territori occupati (dal 1967: oltre mezzo secolo) si associ a una politica estera sempre più avventuristica. L’ appoggio sempre più aperto alla politica saudita, allo scopo di alimentare la rivalità tra “il Regno” e la Repubblica islamica dell’Iran, appare molto pericolosa. Costringere Teheran con le spalle al muro finirà solo col favorire le fazioni più radicali del regime e fomentare il nazionalismo come strumento di distrazione dai problemi interni.

 

Negli ultimi quarant’anni la Cina è passata dalle tristi conseguenze degli eccessi maoisti all’avere un ruolo chiave nella leadership mondiale, grazie ad un’accorta ma penetrante diplomazia di soft power sia economica che culturale. Come lei fa presente nell’opera, Pechino di recente ha investito molto anche sul lato hard power, in particolare navale. Quanto il fascino suscitato dal successo del modello cinese di governance può influire sull’altra faccia della medaglia (o meglio, dell’iceberg) rappresentata dalla contestazione interna allo stesso ordine occidentale? 

A differenza della Russia, che resta un Paese dalla fragile struttura economica e con una debolezza politica istituzionale che persino l’ennesima “riforma” costituzionale di Putin riesce più a nascondere, la Cina è “lo sfidante nr. 1” dell’OLI. Il comparto militare, navale in particolare, era quello dove Pechino conosceva un ritardo maggiore verso gli Usa. È un ritardo che resta ma che è gli investimenti di Pechino hanno ridotto. Pechino ha raddoppiato la sua spesa militare in sette anni. Ma la forza di Pechino sta nell’aver proposto un modello di organizzazione sociale e di capitalismo alternativi a quelli occidentale. Possiamo chiamarlo un “capitalismo di concessione”, in cui élite politiche ed élite economiche non si bilanciano ma si “fondono”, con la sostanziale predominanza delle prime sulle seconde, mentre il partito controlla in maniera ferrea opinione pubblica e dissenso, offrendo in cambio dell’obbedienza migliori prospettive economico-sociali a un’ampia minoranza (ampia, ma sempre minoritaria) della popolazione. Il modello occidentale è basato sulla retorica della contrapposizione si Stato e mercato, di area dell’obbligazione politica ed area del contratto-scambio, con un sostanziale e sempre più decisa prevalenza degli interessi dell’élite economica su quella politica. Se qualcosa ha segnato particolarmente la deriva neoliberale rispetto all’originario assetto liberale dell’ordine (non solo internazionale), questa è stata la cattura del regolatore da parte dei titolari degli interessi più forti e concentrati. Il carattere sempre più oligarchico e oligopolistico assunto dal capitalismo e dalla democrazia in Occidente rende paradossalmente meno dissimili i due modelli e consente di far emergere la fascinazione del modello cinese. Sia per i delusi dalle promesse mancate della democrazia sia per chi la ritiene un impiccio sulla via del profitto.

 

Uno dei temi che più ci riguarda da vicino e che viene affrontato nel testo è “la scomparsa” del popolo, stretto tra populismo e tecnocrazia.
Il dibattitto interno all’UE sembra riprendere perfettamente questo argomento: movimenti sovranisti sparsi in tutta Europa che accusano i burocrati di Bruxelles di non rispettare le singole identità -e soprattutto i bisogni- nazionali, concentrandosi solo sull’imporre regole e controllare i bilanci.
Vista la vicinanza diretta, e quindi la maggiore incisività, di questi movimenti politici alla cittadinanza, in che modo l’Unione può ridurre la distanza che sembra dividerla da coloro per cui essa stessa venne creata?

L’Unione europea sta attraversando da tempo una profonda crisi. È dal fallimento dell’adozione della sua “Costituzione” che si trova in una simile situazione. Quel passaggio prevedeva, più o meno esplicitamente, la capacità di avanzare in maniera decisa verso un orizzonte federale, il suo fallimento non poteva che riportare verso una crescente rilevanza degli Stati-membri, come puntualmente si è verificato. Il ritorno del centro di gravità verso gli Stati ha significato la preponderanza del Consiglio europeo sulla Commissione: ovvero il ritorno della politica di potenza in Europa, proprio quello che la creazione originaria della Comunità europea si proponeva di evitare. La politica di potenza, la rivalità tra i grandi attori, la lotta per la supremazia e il tentativo di assicurare l’ordine attraverso la ricerca dell’equilibrio di potenza ha contrassegnato il sistema degli Stati europeo dalla sua lontana origine vestfaliana sino alla fine della II guerra mondiale. La spinta verso l’unificazione europea ha rappresentato il tentativo di superarla. Con la centralità del Consiglio europeo, la politica di potenza, cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra.
Nel Consiglio i voti non si contano, i voti si pesano. E il differenziale di potenza tra gli Stati torna a giocare un ruolo cruciale e devastante. Certo, oggi il differenziale di potenza si manifesta in termini finanziari ed economici e non più militari: ma gli effetti non sono meno distruttivi. Davanti alla crisi del Covid-19 (quella sanitaria e quella ben più lunga che sarà la conseguente crisi economica) l’Unione rischia persino di saltare per aria. E comunque di allontanarsi sempre più dalle menti e dai cuori dei suoi cittadini.
Ma come potrebbe essere altrimenti? Molto dipende da lei e da quello che gli Stati membri le consentiranno di fare e di essere. Di sicuro c’è che se non riuscirà a “fare la differenza” in positivo nella gestione della terza crisi che i suoi cittadini devono affrontare in 10 anni (prima quella del debito sovrano, poi quella migratoria, ora la pandemia), il suo destino sarà quello di un inesorabile declino.

 

Le parole di Henry Kissinger sulle pagine del Wall Street Journal hanno fatto il giro del mondo. Secondo l’ex Segretario di Stato USA la vicenda del coronavirus può alterare l’ordine mondiale, minando alla base la fiducia che i popoli rivolgono alle proprie istituzioni. Allo stesso tempo, Kissinger pone tra le priorità da affrontare la salvaguardia dei principi dell’ordine mondiale liberale. Se lei dovesse riscrivere in questo periodo Titanic, inserirebbe l’attuale pandemia tra le facce dell’iceberg?

Certamente sì. La pandemia, comunque vada a finire sconvolgerà il nostro mondo. Lo sta già facendo. Ha un effetto rivoluzionario sul nostro modo di vivere, governarci, produrre. E avrà un effetto di delegittimazione di tutte le autorità politiche ed economiche che conosciamo. In un ebook pubblicato da Piemme, Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo, disponibile online dal 20 aprile, tratteggio tre possibili scenari legati alla pandemia. Il primo, la Restaurazione, è quello che si illude di poter ripristinare, con minimi aggiustamenti, l’ordine precedente, un po’ come accadde dopo il 1815. Anche allora ci si illuse di poter tornare a prima della Rivoluzione. Ma in realtà quell’ordine restaurato fu assi diverso dal mondo com’era prima di Robespierre e Napoleone. La gerarchia per la leadership potrebbe essere la medesima o mutare gradualmente a favore della Cina.
Sarebbe un ordine ancora convinto che nella ripresa della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino a febbraio sta la via per la ripresa dell’economia e delle nostre società.
Una pericolosa illusione che è quella più alimentata dal dibattito dei quotidiani e dei media nostrani.
Il secondo, la Fine dell’Impero romano d’Occidente, prevede invece che la globalizzazione arretri significativamente e il mondo universalizzato da cui proveniamo si disarticoli in aree politico-economiche sostanzialmente chiuse le une alle altre o con scambi tra di loro significativamente ridotti. Non necessariamente sarebbe un mondo con maggiori conflitti, ma certamente sarebbe meno in grado di gestire le conseguenze di quella interdipendenza che esiste (pandemie, riscaldamento globale, migrazioni di massa…) “a prescindere” dal fatto che la sappiamo governare.

Il terzo, il Rinascimento, scommette invece sul fatto che questa sospensione del tempo che stiamo sperimentando ci spinga a capire che la sola possibilità di poter evitare scenari da incubo è essere consapevoli della nostra vulnerabilità. È un virus biologico che ha fermato l’iperglobalizzazione, non un virus informatico. Se vogliamo costruire un’interdipendenza più resiliente, dovremo farlo a partire dalla constatazione della vulnerabilità umana, dell’elemento insostituibile eppure più bisognoso di tutela del sistema, e ricostruire un’interdipendenza fatta di “ridondanze”, come su una nave, dove tutti i sistemi sono duplicati. Si tratterà di rimettere al centro l’essere umano e il suo valore rispetto alle cose e al loro prezzo: perché è la soluzione più conveniente e l’unica possibile.


Foto copertina: Rappresentazione del Titanic.


[trx_button type=”square” style=”default” size=”large” icon=”icon-file-pdf” align=”center” link=”http://www.opiniojuris.it/wp-content/uploads/2020/04/Titanic-il-naufragio-dell’ordine-liberale-Mario-Rafaniello.pdf” popup=”no” top=”inherit” bottom=”inherit” left=”inherit” right=”inherit” animation=”bounceIn”]Scarica Pdf[/trx_button]