Una guerra ai capitali?


Rara è, nella storia del mondo neo-globalizzato, una tale mobilitazione negativa di attività commerciali e impresarie europee come quella che ha investito la Federazione Russa dopo l’attacco alla sovranità ucraina lo scorso 24 febbraio. Se una grande fetta di questa reticenza è dovuta all’ampia, progressiva e multisettoriale attività di relazione economica e commerciale con l’Est Europa e, più in particolare, con la Federazione Russa da parte degli stati membri dell’UE, molto si deve alla portata del binomio storico-morale dell’offensiva di Mosca sul suolo ucraino e alle misure restrittive “a fasi” collaudate ai danni di tale operazione.


Il presidente Zelenskyy ha, poi, inveito spesso, nel contesto di una più ampia retorica propagandistica le cui venature “eroicistiche” si accompagnano in più occasioni ad inclinazioni all’attacco verso i presunti alleati occidentali nella guerra contro Putin. Dalle richieste di aiuto sul campo, alla minaccia perpetrata ai valori europei dato un abbraccio in stand-by attorno a Kiev, alla sferzata contro le imprese operanti in Russia. Dalla Nestlé e, dunque, dal più ampio settore alimentare, a quello farmaceutico, rappresentato, nella retorica del presidente, da Sanofi e Bayer, al settore chimico con BASF o a quello elettronico con i riferimenti di marzo a Samsung e LG, le multinazionali operanti in Russia hanno accusato i colpi verbali di una guerra che non solo le impatterà nel medio termine, ma che le delegittima inevitabilmente come competitors o monopoli degni di travalicare ogni confine. Recentemente, la francese Renault ha accettato la sfida e chiuso i battenti di ferro russi, con il plauso del governo ucraino.

La politica europea e i movimenti spesso progressisti, di cui si assiste ad una devota paralizzazione dell’offerta politica concentrata da settimane sul supporto indiretto all’Ucraina, alimentano poi il dibattito interno sulle grandi aziende nazionali con ancora in attivo la loro produzione in Russia. In Regno Unito Mark and Spencer nonostante sia stata stretta da una morsa mediatica e politica, apre i 48 negozi attivi nella Federazione Russa. Peccato che, affermano, la gestione dei punti vendita non è controllata dalla corporazione ma è una società turca che, grazie ad una licenza, ne decide il destino. Intanto, M&S ha sospeso i rifornimento verso le sedi del franchising in Russia e devoluto aiuti finanziari e materiali in Ucraina, attraverso il sostegno[1] all’UNICEF e all’UNHCR. Nel frattempo, chi è più vincolato da contratti con stakeholders e partnership commerciali ad affari ininterrompibili unilateralmente nel breve periodo, ha deciso spesso di ritirare quote azionarie, interrompere precedenti e rifiutare nuovi finanziamenti, specialmente joint-ventures pluridecennali, fare pressione sui direttori delle società in loco, rimpatriare i dipendenti e sospendere l’implementazione di strategie di marketing. Questo, in svariati settori da quello energetico ai trasporti, dai beni di consumo ai servizi finanziari e legali. Molti sembrano essere, così, gli strumenti che sottoscrivono una grande reticenza a fare affari con la Russia di Putin. Una reticenza, non una chiusura immediata dei rapporti, perché si tratta di strumenti nelle mani di “chi” non rientra tra le oltre 600 aziende che hanno deciso, dall’inizio del conflitto, di interrompere le attività sul suolo russo e che, al 28 febbraio, erano solo una dozzina.


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Ad oggi, poco meno di 200 compagnie hanno continuato i loro business “as usual”. Circa un centinaio hanno interrotto nuovi finanziamenti, sviluppi corporativi e di marketing (con una grande eccezione rappresentata dalla Cina). Poco più di 100 aziende, però, hanno ridotto le operazioni commerciali o finanziarie, bloccato la produzione, interrotto la fornitura di alcuni servizi, mentre altri restano attivi, sotto forma di finanziamenti, supporto, diversificazione delle attività, creazione di nuovi servizi in altri settori, mantenimento di alcuni settori di produzione strategici o “essenziali”. Così, con una crescita rapidissima di soggetti, 360 aziende hanno interrotto e sospeso le operazioni in Russia mentre quasi 300 hanno definitivamente chiuso i battenti in Russia e tra queste le italiane Yoox, Assicurazioni Generali, Ferragamo ed Eni. Quest’ultima ha annunciato la vendita della sua quota azionaria del 50% dal progetto Blue Streem, il condotto sottomarino del gas che connette Mosca ed Ankara attraverso 16 miliardi di cubi annui. Così, varie compagnie approcciato il clima di crisi ed instabilità seguendo l’onda dell’esodo, sulla scorta della decisione shock della British Petroleum di inizio marzo: il più grande investitore straniero in Russia aveva, infatti, ceduto la sua quota azionaria del 20% in Rosnef, la compagnia petrolifera di stato russa dissipando un terzo della sua produzione globale.

La scelta delle aziende non è però sorprendentemente etica e slegata da ogni calcolo circa le opportunità di profitto, non si distacca dalla razionalità economica che guida il loro operato. Se un’impresa decide di interrompere le attività commerciali è perché investire nel mercato russo comporterebbe dei danni agli stessi azionisti accrescendo l’incertezza del business legata ad un previsto calo della domanda dei consumatori finali dei prodotti e servizi di origine o provenienza russa. Così riflettiamo se guardiamo alla distribuzione geografica: Italia e Francia si trovano immediatamente sopra alla Cina, segnando le quote minori di disimpegno, rispettivamente al 64% e 68%, in comparazione al 46% delle aziende tedesche, che pure hanno fortissimi legami commerciali ed industriali con la FR.

Nel frattempo, le imprese e gli investitori russi guardano a Pechino. La Banca Asiatica degli Investimenti, la Banca Industriale e la Banca di costruzione cinese hanno registrato aumenti nelle richieste di finanziamenti provenienti da nordovest e non hanno lasciato commenti alle richieste di spiegazioni, nella maggior parte dei casi provenienti da Reuters. La strategia politica chiamata “RePowerEU” basata sulla diversificazione da parte dell’Unione Europea della diversificazione delle fonti di importazione di gas naturale, di cui la Russia costituisce circa il 45%, offre modo di spingerci, di fatti, al di là della semplice virata verso il dragone da parte delle corporazioni russe. Alcune stime rilevano che gli stati membri pagano quotidianamente e nel loro complesso, circa 800 milioni di euro a Mosca, continuando a finanziare, di fatto, l’invasione, l’occupazione e le missioni russe in Ucraina – leggi violenze e violazioni del popolo e delle generazioni future. Nel frattempo le fila del sistema internazionale sottendono una fitta rete di negoziazioni che vede il suo fulcro nell’Asia Sud-Occidentale (comunemente appellata area del Medio Oriente). Eni costituisce un esempio italiano della corsa al riparo e riempimento delle cisterne europee, di cui ne è esempio il successo negoziale col Cairo[2], del cui gas ci si impegna a promuovere l’esportazione. Le implicazioni dei finanziamenti del potere petrolifero egiziano offrono gli stessi punti di riflessione – e preoccupazione – che animano la vulgata italiana ed europea circa i rapporti con le industrie russe. Lo sviluppo di questa nuova ma vecchia volontà in seno all’unione, nel concreto, influenzerà l’intera struttura del sistema internazionale interconnessa e globale, come affermato anche dallo stesso Putin. Egli ha infatti chiesto al governo di predisporre le infrastrutture federali all’implementazione del commercio verso il Sud-Est Asiatico, data l’aspettativa per cui “nel prossimo futuro le forniture di energia all’Occidente saranno ancora ridotte, quindi è importante consolidare la tendenza degli ultimi anni a riorientare […] le esportazioni verso i mercati in rapida crescita del Sud e dell’Est”[3].

I rapporti tra Mosca e Pechino sono non solo il riflesso dei principi cinesi alla base della mancata condanna dell’intervento russo in Ucraina ma parte di una più fitta rete di stati e attori che non ricorrono allo strumento della ritorsione economica nel diritto internazionale in seguo a sue violazioni. Infatti, è solo il 19% degli stati al mondo ad aver sanzionato economicamente la Federazione Russa e, anche se rappresentando il 59% dell’economia mondiale e partners strategici di Mosca, l’assenza di una risposta comune, unanime lascia ampi spazi di manovra per il Cremlino e le aziende russe di espandersi altrove attraverso il trade divert. Precisamente, è proprio perché le sanzioni hanno una portata significativa sui rapporti economici attuali tra Russia e Occidente, proiettando proiezioni fortemente negative per il PIL (-11%) e a livello inflazionistico (+23%). Secondo un’analisi eziologica più allargata che parte dall’unione e la sovrapposizione parziali di crisi più disparate fra settore finanziario, commerciale, sanitario, diplomatico e bellico, i dati convergono a sottolineare uno scenario catastrofico: la crescita, nel 2022, frenerà in ben 143 paesi del mondo. I default non tardano ad arrivare e con anticipazione a quello che si prospetta essere il prossimo futuro della Federazione Russa, si è già concretizzato in Sri Lanka La Cina, nella fitta trama economica globale, non è da meno perché sembra che la guerra, congiuntamente al stringente lockdown, rallenterà la sua crescita, stando al suo significato mainstream prettamente economicistico e produttivo, dell’1,1%.

Restrizioni o sanzioni?

Il rinnovo delle “misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina”, legate principalmente al commercio e ai rapporti economici con la Russia” previste dal regolamento UE 2022/576[4], prendendo atto dalla decisione (PESC) 2022/578 dell’8 aprile 2022, restringe il cerchio dei beni e dei servizi esportabili ed importabili. Su quest’ultimo fronte, si evidenzia come sia vietato fornire, trasferire o vendere “beni atti a contribuire in particolare al rafforzamento delle capacità industriali” della Federazione Russa consentendo introiti significativi per ulteriori azioni di destabilizzazione in Ucraina, tra cui, in primis, i beni dual use, se non, per alcune categorie di beni, ad eccezione di scambi a scopi umanitari o diplomatici e nel caso di contratti già operativi al 9 aprile. La lista dei beni soggetti a tale atto disciplinare appare coraggiosa, dato ildivieto di importazione di carbone, lignite, torba e derivati. I beni più importati, infatti, dall’Italia nonché dalla maggioranza di paesi dell’Unione, appartengono proprio al settore petrolifero, dei materiali chimici e da intreccio e al settore alimentare. Si aggiunga, inoltre, il divieto, seppur con le previste eccezioni autorizzative, di fornire supporto e beni connessi con lo sviluppo e la manutenzione di Internet. Tuttavia, seguendo una linea di divisione dell’opinione pubblica e dell’intellighenzia che delimita ragionevolezza e aberrazione, le dovute limitazioni escludono gas e raffinati dalla mole di beni che possano rafforzare le capacità produttive. Pertanto, l’ingente e problematico aumento dei prezzi europei rimane legato all’esclusiva riduzione del 20-25% delle esportazioni di Mosca verso l’UE. Anche guardando al divieto di transito navale e su strada di merci russe, una deroga speciale è riservata a gas naturale e petrolio, compresi i prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, nonché titanio, alluminio, rame, nichel, palladio e minerali di ferro di cui la Russia è uno dei principali fornitori mondiali. Vietati, sono inoltre prodotti farmaceutici, medici, agricoli e alimentari, compreso il frumento e i fertilizzanti (art. 3 terdecies par. 4 a, b). D’altra parte, l’impatto delle nuove restrizioni all’esportazione d prodotti ad alta tecnologia e di beni di lusso andrà a colpire un irrisorio 12% delle importazioni russe con gravi conseguenze per l’export europeo: inizia, dunque, una corsa a nuovi acquirenti in Europa e nuovi venditori dall’altra parte degli Urali. In ogni caso, si tratta di misure restrittive al commercio uniche nella storia del mondo globalizzato, sanzioni oggettive e soggettive che vanno al di là delle sanzioni al Venezuela di Maduro del 2017, o di quelle alla Siria di Assad del 2011, basate su un divieto di commerciare beni o loro parti o fornire supporto e servizi, anche indiretti, a sostegno della repressione militare e di violazioni di diritti umani o di qualsiasi principio democratico.

L’essenza del commercio nel quadro globale

Nonostante la crisi abbia origine ad inizio 2014, l’export italiano di prodotti agroalimentari, che rappresenta una grande fetta del commercio verso l’estero del Bel Paese, ha registrato un progresso senza interruzioni fino all’”era Covid-19”. Ma con la nuova crisi i prezzi del cibo, a livello mondiale, raggiungono, secondo la FAO, un’inflazione del +33%[5] rispetto a marzo 2021, non rendendo preconizzabile, nel breve periodo, un successo commerciale sul campo per nessun paese dell’Unione. Infatti, dopo i beni energetici, anche i beni alimentari, in primis trasformati e subito dopo quelli freschi, hanno subito un forte rialzo. Dato che le esportazioni russe riguardano per il 14% le materie prime alimentari e per il 51% quelle energetiche, la media europea inflazionistica salirà al 7,5% annuo, con l’Italia al 6,7% con uno slancio del +1,2% rispetto a febbraio. Di qui, l’aumento dei prezzi dei beni energetici passano dal 46 % di febbraio al 53% (su base tendenziale) e, a seguire, le materie prime alimentari salgono all’8% (+1,2% da febbraio)[6]. Poco tempo fa, il valore delle importazioni dalla Russia, per l’Italia, era di 17,6 miliardi di euro, di cui 13,4 descrittivi di risorse energetiche, prevalentemente gasiere e ben 1200 PMI italiane destinavano alla Russia più del 10% della loro produzione.

Ciò esplicita ulteriormente quanto nel vastissimo, intensissimo e fittissimo sottosuolo del commercio internazionale produrre e commerciare beni essenziali – leggi risorse alimentari ed energetiche – rappresenta nella storia del mondo l’inizio e la fine di interi schemi commerciali o, più astrattamente, dimensioni strutturali delle relazioni internazionali. Questo è vero non perché sarà l’Europa a risentire maggiormente del cambio di paradigma, ma anche perché avrà conseguenze di alta portata sullo sviluppo economico di paesi dell’Asia Occidentale e dell’Africa che hanno consolidato negli ultimi anni buoni tassi di crescita, approcciato l’inserimento nel commercio globale e crescenti capacità di investimento. Complice l’innalzamento dei prezzi conseguente alle numerose crisi globali culminate con quella epidemica in corso e che 35 Stati africani importano cibo, in primis cereali, e 22 importano fertilizzanti dall’Ucraina, dalla Russia o entrambi. Già oggi in Africa sub-sahariana stanno affrontando aumenti del prezzo del grano aggravando un’insicurezza alimentare che in Europa, generalmente, non temiamo.  L’incidenza del conflitto sui prezzi dei beni di prima necessità sta gravemente complicando la situazione economica e umanitaria in paesi già in forti difficoltà di approvvigionamento ed esposti a carestie, come Somalia o Etiopia. Sarà la guerra in corso sul suolo europeo non solo, ambiziosamente, costituzionalmente capace di rendere il commercio un catalizzatore di pace come si può leggere fra le righe della storia recente? Saranno capaci gli altri paesi, ciclicamente nuove destinazioni economiche e potenzialmente nuovi attori di successo globale, di insegnarci il valore intrinseco del denaro per uno sviluppo umano che investi le generazioni? Forse, la diversificazione strategica più importante ed influente, ovvero la sfida della politica, riposa sul tendere lo sguardo a nuovi schemi valoriali che possano nutrire le relazioni fra stati, nobile sottoscrizione di patti rigenerativi fra etica e pratica, validi, ovviamente, non solo per il commercio.


Note

[1] https://corporate.marksandspencer.com/media/press-releases/6220d70a7880b2454cf64ab6/m-and-s-statement-on-ukraine
[2] https://www.infomercatiesteri.it/highlights_dettagli.php?id_highlights=19959
[3] https://www.ansa.it/nuova_europa/it/notizie/rubriche/altrenews/2022/04/14/putin-riorientare-export-energia-da-europa-verso-sud-e-est_1dedd229-7725-45cd-8111-9d72ee4c79fc.html
[4] Fonte ufficiale della Gazzetta dell’UE: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32022R0576
[5] https://www.ispionline.it/it/global-watch/global-watch-speciale-geoeconomia-n99-34605
[6] Dati ISTAT: https://www.istat.it/it/archivio/268881


Foto copertina: Bandiere ucraine. Una guerra di capitali?