Intrigo internazionale nella piccola Cina


Contesa tra Washington e Pechino, Taiwan potrebbe determinare il destino dell’intero ordine internazionale.


Cenni storici

Taipei, la capitale che di fatto non esiste, è la principale città di un’isola chiamata Taiwan che si trova a circa 150 km dalle coste della Repubblica Popolare Cinese e che fa parte dell’alveo delle cosiddette tigri asiatiche ovverosia Corea del Sud, Singapore, Hong Kong e appunto Taiwan. Essi sono stati protagonisti dell’ascesa dei principali mercati del Sud-est asiatico nel corso del secolo scorso. Divenuta addirittura un possedimento giapponese nel corso della fine dell’Ottocento, Taiwan ha cominciato ad assumere rilevanza geopolitica nelle strategie del Dragone a partire dal 1949. In quell’anno i ribelli comunisti guidati da Mao Zedong espugnarono la Grande Cina che fino a quel momento era stata governata dal filo-statunitense Chiang Kai-shek. Quest’ultimo insieme ai nazionalisti del Kuomintang (il partito che governò la Cina nazionalista dopo la fine della dinastia imperiale Qing) si rifugiò sull’isola di Formosa credendo che l’unica Cina legittima fosse la sua ovverosia quella che da lì a poco avrebbe governato Taiwan. Oggi infatti il Kuomintang è uno dei principali partiti taiwanesi. Esso si è tuttavia distinto nel tempo per avere sostenuto il principio di una sola Cina rifiutando così la tanto discussa indipendenza taiwanese avallata invece dal Partito Progressista Democratico.[1]
Giunti sull’isola e ufficialmente in esilio i nazionalisti iniziarono una vera e propria epurazione per eliminare il sentimento anti cinese da parte degli autoctoni, i quali erano da poco stati abbindolati dalle fandonie giapponesi che si erano fatti portatori di un’idea per la quale l’etnia taiwanese fosse distinta da quella han. Il periodo del così chiamato “terrore bianco” durò oltre 38 anni, arco temporale in cui fu presente la legge marziale.[2] Tutto ciò avvenne sotto la protezione degli Stati Uniti che, in nome di una lotta globale al comunismo cominciata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, appoggiarono il neonato governo nazionalista e impedirono che il posto alle Nazioni Unite fosse occupato dai comunisti della Repubblica Popolare a vantaggio proprio dei nazionalisti esiliati. Questo diede vita di fatto a “due Cine”. La prima quella figlia della rivoluzione maoista con capitale Pechino che si è sviluppata sotto i dettami comunisti dopo aver posto fine al secolo dell’umiliazione durato dal 1849. La seconda invece, con capitale Taipei, che, dopo un periodo di repressioni causate dai nazionalisti, ha cominciato le riforme democratiche tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta fino a quando nel 2000 ascese al potere finanche la prima presidenza anti KMT guidata da Chen Shui-bian.
Se da un lato molte tematiche attinenti ad esempio al ruolo della donna rimangono ancora oggi di stampo estremamente conservatore, dall’altro Taiwan ha imparato a distinguersi dagli altri paesi asiatici in termini di diritti umani come ad esempio quelli garantiti nei confronti delle persone omosessuali che possono legalmente sposarsi.[3] Emblematica differenza tra gli stili di vita della piccola Cina rispetto alla grande.
La fragilità a cui Taiwan è esposta in termini geopolitici è rappresentata dal numero esiguo di paesi che ne riconoscono l’indipendenza. Ad oggi solo 12 nazioni infatti si sono espresse favorevolmente a riguardo e tra essi non figurano grandi potenze. Riconoscere Taiwan infatti significherebbe inimicarsi la Repubblica Popolare e di conseguenza vedere cessare le relazioni economiche esistenti.

Il legame con gli Stati Uniti

Il legame tra Washington e Taiwan è ormai storico. Prendendo infatti come riferimento temporale il post seconda guerra mondiale possiamo asserire che l’appoggio degli Stati Uniti nei confronti di quella che sarebbe dovuta essere l’unica Cina legalmente riconosciuta e governata dal nazionalista Chiang Kai-shek è stato indiscusso almeno fino al 1971. Fino a quella data Washington rappresentava l’unico grande paese che riconosceva ufficialmente Taiwan come stato. Le ragioni di ciò sono da ricercare nella politica di contenimento posta in essere durante il periodo di guerra fredda. Tale politica era infatti rivolta a fare in modo che l’ideologia comunista non si espandesse più di quanto fosse già avvenuto. I principali sforzi furono rivolti nei confronti dell’Unione Sovietica. Tuttavia gli Stati Uniti per lungo tempo hanno creduto che i due tipi di comunismi, quello sovietico e quello cinese, fossero due facce della stessa medaglia (cosa in realtà errata). Pertanto la strategia di riconoscere un posto all’ONU soltanto ai nazionalisti esiliati rientrava nelle strategie tattiche per le quali, insieme a Francia e Regno Unito, il Consiglio di Sicurezza sarebbe stato a schiacciante trazione filo-americana. Questo fino alla menzionata data del 1971 quando un riavvicinamento dei rapporti sino-americani in chiave anti sovietica aprì le porte delle Nazioni Unite alla Repubblica Popolare Cinese. Gli Stati Uniti cessarono di riconoscere Taiwan come nazione ma ciononostante non fecero venire meno il sostegno all’isola, continuando così a garantire quell’ombrello necessario affinché le mire pechinesi venissero dissuase. Il Taiwan Relations Act del 1979 stabilì la base legale per le relazioni tra gli Stati Uniti e Taiwan dopo il cambiamento di riconoscimento ufficiale. Secondo questa legge, gli Stati Uniti forniscono (ancora oggi) a Taiwan armi di difesa e mantengono una posizione ambigua sulla questione dello status, evitando di sostenere esplicitamente l’indipendenza di Taipei ma garantendo che qualsiasi cambiamento nello status dell’isola debba essere risolto pacificamente.[4]

Con il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti non hanno smesso di intrattenere rapporti con Taiwan. Questo per diverse ragioni. In primis la posizione geografica di Formosa è cruciale nelle strategie di stabilità della regione. Stabilità che gli Stati Uniti intendono assolutamente mantenere in virtù degli interessi commerciali che possiedono. A riguardo la seconda motivazione è che Taiwan, dopo il periodo di espansione economica del secolo scorso, rappresenta un attore chiave nella catena di approvvigionamento globale, in particolare nei settori tecnologici e manifatturieri. Molti importanti produttori di tecnologia, tra cui aziende chiave nel settore dei semiconduttori, hanno legami con Taiwan. Basti pensare che Taipei oggi incarna il ruolo di principale attore mondiale per ciò che attiene le costruzioni di microchip, i quali sono considerati fondamentali per lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale e dunque anche per la guerra ibrida.[5] Infine Taiwan rappresenta la partita più importante nella competizione a due con la Cina per il ruolo di leadership mondiale. Dopo aver fatto rientrare nei ranghi Hong Kong la Cina punta a far valere lo stesso destino anche per Formosa al fine di ottenere uno dei requisiti chiave per essere considerati superpotenze ovverosia essere sicuri in casa propria.

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Le ambizioni di Pechino

Il 2049, anniversario del centenario della rivoluzione comunista, è l’anno in cui Pechino intende riportare definitivamente nel proprio alveo la ribelle isola di Formosa. Le costanti esercitazioni militari al largo delle coste taiwanesi rispondono perfettamente a questa esigenza. Il messaggio che infatti trapela è che sebbene non si voglia arrivare allo scontro con Taipei (leggasi con gli Stati Uniti) tale opzione non è da escludere. Il tutto nonostante la maggioranza degli abitanti della piccola Cina abbiano scelto nelle ultime elezioni di mantenere lo status quo votando per il progressista Lai Ching-te (al netto del fatto che avrà un governo di minoranza).[6] Il segnale che proviene dall’isola pertanto è quello di non riconoscere l’esistenza di una sola Cina. Messaggio che si collega perfettamente alle parole del presidente nel disconoscere il trattato del 1992, il quale poneva alla base proprio questa atavica questione. Tuttavia da questo orecchio Xi Jinping non intende ascoltare. La riunificazione con Taiwan è troppo importante per lanciare definitivamente il guanto di sfida agli Stati Uniti e all’Occidente. L’obiettivo infatti è quello di laurearsi prima potenza economica scalzando il primato storico di Washington e proiettando la Repubblica Popolare verso una politica estera più assertiva di quanto abbia invece conosciuto durante la propria storia. I predecessori di Xi Jinping infatti portarono avanti riforme economiche (come quelle di Deng Xiaoping) indirizzate prevalentemente a rafforzare il paese sul piano interno. In virtù del recondito ricordo del secolo dell’umiliazione Pechino ha sempre prediletto la salvaguardia dei confini nazionali ed è soltanto con la presidenza di Xi che ha rilanciato le proprie ambizioni internazionalistiche, le quali sono passate da Hong Kong e dovranno per forza di cose passare da Taiwan.
Il controllo di Taiwan è di importanza strategica per la Cina, specialmente in termini di sicurezza militare. Essa consentirebbe al Dragone di avere una posizione più sicura nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale, influenzando l’equilibrio delle forze nella regione. Inoltre scoraggerebbe altre regioni dall’intraprendere la strada dell’indipendenza, cosa che minerebbe ogni progetto di leadership mondiale a cui Pechino ambisce.
Al fine di raggiungere il proprio obiettivo Pechino può contare sul fatto che l’alleato russo non interferirà dato che i rapporti tra l’Orso e Formosa non sono mai stati caratterizzati da grandi legami politici e commerciali. Di contro Pechino si è sempre mantenuta su una posizione di relativa accondiscendenza rispetto alle ambizioni del Cremlino in Ucraina. Aspetto che gli garantirà un nemico in meno nel quadro delle alleanze. 

Un futuro di guerra?

Contesa tra Washington e Pechino l’isola di Taiwan potrebbe essere la scintilla per una terza guerra mondiale. Se da un lato questo aspetto è assolutamente da tenere in considerazione, dall’altro è plausibile credere che possa diventare realtà soltanto a determinate condizioni. Nel 2022 il presidente statunitense Joe Biden in occasione di un’intervista rispose che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente in caso di attacco all’isola ma lo avrebbero fatto solo se si fosse trattato di «un attacco senza precedenti».[7] L’obiettivo principale è infatti quello di gestire la questione in un modo non troppo dissimile da quello con cui fu gestita la guerra fredda. Sconfiggere l’avversario senza (quasi) colpo ferire.
Ambiguità strategica è stata la parola d’ordine che ha caratterizzato la politica estera americana nei confronti di Taiwan negli ultimi anni. L’isola rappresenta una spada di Damocle sulla testa del Dragone e stando alle parole del Generale Douglas MacArthur è «una portaerei inaffondabile».[8] Dal canto cinese la riconquista dell’isola comporterebbe controllo e sorveglianza sul territorio marittimo oltre al ricco bottino derivante dall’accaparramento della catena del valore dei semiconduttori.
Tra lo scenario di guerra aperta e l’inverosimile abbandono della questione da parte degli Stati Uniti la verità probabilmente è nel mezzo. Washington farà in modo di difendere la propria primazia senza doversi dissanguare e potrebbe acconsentire, nel lungo periodo, ad una riunificazione pacifica tra la piccola e la grande Cina al fine di mantenere un dialogo col Dragone e preservare la propria sfera d’influenza in Asia.


Note

[1] F. Giuliani, La storia del Kuomintang, il Partito Nazionalista Cinese, InsideOver, 16 ottobre 2021.
[2] I. Sala, Cosa fare con i dittatori morti, Il Post, 2023. https://www.ilpost.it/2023/12/01/sala-cosa-fare-con-i-dittatori-morti/  
[3] L. Lamperti, Huang Jie, la prima deputata Lgbt di Taiwan: “La mia vittoria è un segno di maturità per la nostra democrazia”, La Stampa, 2024. https://www.lastampa.it/esteri/2024/02/09/news/huang_jie_la_prima_deputata_lgbt_di_taiwan_la_mia_vittoria_e_un_segno_di_maturita_per_la_nostra_democrazia-14058628/
[4] H.R.2479 – Taiwan Relations Act.  96th Congress (1979-1980).
[5] C. Miller, Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology, Scribner, 2022.
[6] L. Lamperti, Cosa succede ora a Taiwan,Wired, gennaio 2024. https://www.wired.it/article/taiwan-elezioni-presidente-lai-futuro-cina-unificazione/
[7] D. Brunnstrom e T.Hunnicutt, Biden says U.S. forces would defend Taiwan in the event of a Chinese invasion, Reuters, 2022. https://www.reuters.com/world/biden-says-us-forces-would-defend-taiwan-event-chinese-invasion-2022-09-18/
[8] Memorandum of Conversation, by the Ambassador at Large (Jessup), Office of Historian, 25/6/50.


Foto copertina: Un manifestante tiene le bandiere di Taiwan e degli Stati Uniti in sostegno alla Presidente taiwanese Tsai Ing-wen. California, USA, il 14 gennaio 2017. REUTERS/Stephen Lam/Foto di archivio