Green is the new black: i pericoli dell’ecofascismo


L’ecofascismo rappresenta una minaccia insidiosa che mescola preoccupazioni legittime per l’ambiente con ideologie autoritarie e xenofobe. Rispondendo alla necessità di insinuarsi in quegli spazi che a lungo sono stati appannaggio esclusivo dei partiti di sinistra, l’ecologismo reazionario di estrema destra sta inquinando il dibattito politico.


«Dopo anni di rimozioni e di negazionismo, l’estrema destra ha mutato strategia: riconosce il cambiamento climatico ma ne attribuisce la colpa alle migrazioni, ai popoli del Sud del mondo, alla modernità». Sono queste le parole che si leggono sulla copertina dell’ultimo libro di Francesca Santolini, Ecofascisti. Estrema destra e ambiente, e che restituiscono in estrema sintesi l’essenza di un fenomeno che affonda le sue radici nelle logiche coloniali, neomalthusiane e razziali del secolo scorso.[1]
In effetti, consapevole della crescente rilevanza assunta dalle questioni ambientali presso il proprio elettorato, l’estrema destra si è vista costretta a ridefinire la sua tradizionale strategia, passando da una negazione del problema a una sua rielaborazione.
Non potendo più negare l’evidenza della crisi climatica né rifiutare l’urgenza di misure politiche atte a risolverla, l’estrema destra si è appropriata del discorso climatico e lo ha rimaneggiato, trasformando l’ecologia in uno strumento di protezione delle frontiere e declinando la lotta al cambiamento climatico in termini patriottici.[2] Proprio questa circostanza le ha permesso di farsi promotrice di risposte nazionalistiche reazionarie alla crisi climatica, risposte che passano dalla securizzazione dei confini nazionali e arrivano alla promozione di politiche di controllo demografico della popolazione del Sud del mondo.

La rielaborazione del discorso ambientalista

Concentrarsi sulla sicurezza dei confini piuttosto che sulla trasformazione sistemica del modello economico vigente rappresenta il cuore dell’ecobordering, un fenomeno concettualizzato da Joe Turner e Dan Bailey. I due autori, in uno studio pubblicato nel 2021, hanno analizzato i programmi elettorali e le modalità di comunicazione di 22 partiti europei di estrema destra, arrivando così a delineare il profilo di un nuovo discorso emergente nella politica ambientale – l’ecobordering appunto – che guarda alla migrazione come causa del degrado ambientale, confondendo palesemente le cause con gli effetti.[3]
Più precisamente, la migrazione viene descritta in termini di saccheggio ambientale o come atto di vandalismo. Nel primo caso, i migranti sono accusati di esaurire le già scarse risorse naturali nazionali e di rappresentare una pericolosa minaccia per spazi verdi e terreni agricoli. La responsabilità della crisi ambientale, quindi, viene attribuita a chi cerca di godere degli stessi stili di vita ad alta intensità di carbonio tipici del Nord globale. Una narrazione problematica sotto molteplici punti di vista. Non solo, infatti, mira a normalizzare un’idea non veritiera che vuole i migranti in grado di produrre lo stesso impatto ambientale di un abitante del Nord del mondo, pur non avendo però accesso alla stessa gamma di beni e servizi, ma – cosa ancor più grave – non è interessata a mettere realmente in discussione l’insostenibilità dello stile di vita di cui sopra, ma solo a precluderne l’accesso a una determinata categoria di individui, i migranti ambientali.[4] Questi ultimi, passando al caso della migrazione come atto vandalico, sono considerati un’orda di incivili, incapaci o non interessati a prendersi cura del mondo naturale. Della tutela dello stesso si occuperebbero dunque i cittadini nazionali. Eletti sulla base di un presunto criterio di appartenenza a custodi degli spazi verdi, gli autoctoni li avrebbero gestiti in modo assolutamente sostenibile, responsabile e irreprensibile fino all’inizio dell’immigrazione di massa. Se, dunque, l’idea di migrazione come saccheggio ambientale trova origine, e a sua volta rafforza, la logica eugenetica e coloniale che riconosce alcune popolazioni come più legittimate e meritevoli di adottare stili di vita che degradano i beni comuni globali, la migrazione come atto di vandalismo riporta alla mente la connessione di matrice nazista tra sangue e suolo.

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L’influenza della formula “Sangue e Suolo” nell’ecofascismo contemporaneo

Quest’idea, espressa dalla formula tedesca “Blut und Boden”, enfatizza il presunto indissolubile legame che viene a crearsi tra un popolo (sangue) e la sua terra (suolo). Secondo questa visione, non solo la terra dove vive un popolo è da considerarsi sacra, ma è addirittura ritenuta fondamentale per forgiarne l’identità culturale e razziale. Fu il Ministro dell’alimentazione e dell’agricoltura del Terzo Reich, Richard Walther Darré, a popolarizzare questa idea. Infatti, ritenendo che il futuro della Germania fosse legato al ritorno alla terra e all’agricoltura, Darré descriveva i contadini come la colonna vertebrale di quella che per lui era la razza nordica, destinata a dominare la Germania e conquistare l’Europa.[5] Non è un caso se il concetto di sangue e suolo venne stato utilizzato anche per giustificare il bisogno di spazio vitale (Lebensraum), necessario – secondo le logiche geopolitiche naziste – a garantire, attraverso l’espansione della Germania verso est, il benessere e la sopravvivenza del popolo tedesco.[6]
E se oggi questi discorsi potrebbero far pensare ad anacronistici concetti da relegare nei libri di storia, le esternazioni più recenti del generale Vannacci – candidato alle elezioni europee con la Lega – ci permettono di comprendere come, in realtà, tali discorsi continuino a essere spaventosamente attuali.
«Vi posso assicurare che se avrò la possibilità di giocare la mia partita sugli scranni del Parlamento europeo, io baserò la mia su una strategia a due direttrici principali: la prima è la proposizione di provvedimenti a difesa della vita, del progresso, della famiglia, delle tradizioni, delle radici che ci contraddistinguono e del sangue del suolo che ci caratterizza tutti quanti come cittadini europei […]».[7]
Sono queste le parole dell’intervento tenuto da Vannacci alla conferenza stampa “Se l’Europa cambia valori, tu cambia l’Europa!”. Organizzata il 22 maggio su iniziativa del senatore Malan, la conferenza ha voluto promuovere la firma del Manifesto dei valori, programma realizzato dall’associazione ProVita & Famiglia con lo scopo dichiarato di influenzare le prossime elezioni e invertire la deriva suicida dell’Unione europea, per consentirle di riavvicinarsi alla cultura della vita.[8] 

Il controllo demografico come strumento di tutela ambientale

Proprio il discorso sulla natalità ci consente di tornare a quanto si affermava all’inizio dell’articolo circa la promozione, da parte di alcuni partiti di estrema destra, di politiche di controllo demografico della popolazione del Sud del mondo. Evidenziando ancora una volta la presenza di un doppio standard con cui si trattano i cittadini europei e quelli stranieri, ai primi si chiede di far tornare in auge la famiglia tradizionale con molti figli per contrastare la presunta “infiltrazione straniera” e scongiurare la “morte imminente del popolo”, mentre per i secondi si suggerisce l’applicazione di misure antinataliste, anche e soprattutto in nome della tutela del pianeta e del suo sistema climatico.[9]
La crescita della popolazione mondiale è considerata, infatti, un fattore di crisi centrale nel discorso sulla capacità di carico della Terra, da quando – tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso – il libro di Paul Ehrlich, The Population Bomb, e il rapporto del Club di Roma sui limiti della crescita hanno formulato e diffuso quest’idea. I catastrofici scenari delineati al loro interno si basavano sulla tesi che, in assenza di un adeguato controllo demografico, la popolazione sarebbe cresciuta così velocemente e così tanto da superare la capacità di carico della Terra. Un’idea che, relativamente ai limiti della produzione alimentare, era stata già sostenuta dal teologo ed economista britannico Thomas R. Malthus alla fine del XVIII secolo.[10]
Le argomentazioni neomalthusiane vengono quindi reinterpretate dagli estremisti di destra che se ne servono per sostenere che la crescita demografica nei Paesi in via di sviluppo o nel Sud globale rappresenti la più grande minaccia per la protezione dell’ambiente. Una circostanza che, tra le altre cose, si traduce nel tentativo particolarmente inquietante di subordinare gli aiuti allo sviluppo all’implementazione di rigide politiche di controllo della popolazione. Dunque, alla luce di queste considerazioni, diventa quantomai urgente riconoscere e respingere le narrazioni che cercano di sfruttare l’ambientalismo per giustificare l’oppressione e la violenza, in nome di un’ideologia distruttiva che se da un lato finge di avere a cuore le sorti del pianeta, dall’altro non esita a prevaricare e angustiare i suoi abitanti, o almeno una buona parte di essi.


Note

[1] F. SANTOLINI, aprile 2024, Einaudi, Torino.
[2] Ivi, pag. 24
[3] J. TURNER, & D. BAILEY, «‘Ecobordering’: casting immigration control as environmental protection». Environmental Politics, 2022
[4] Ibid.
[5] R.W. DARRÉ, «Nuova nobiltà dal sangue e dal suolo». JF Lehmann, 1930.

[6] F. RATZEL, «Lo spazio vitale. Uno studio biogeografico». H. Laupp, 1901.
[7] R. VANNACCI, collegamento in conferenza stampa “Se l’Europa cambia valori, tu cambia l’Europa!”
[8] https://www.provitaefamiglia.it/blog/elezioni-europee-il-22-maggio-al-senato-pro-vita-famiglia-presenta-il-manifesto-di-impegni-e-i-nomi-dei-primi-candidati-firmatari-2
[9] D. GOTTSCHLICH, «Right-Wing Extremism and Ecology». Political Science Volume 130, 2023.
[10] Ibid.


Foto copertina: getarchive.net. Manifesto di protesta esposto durante una manifestazione per il clima