Guerra in Ucraina, sanzioni e dipendenza energetica europea: il problema tedesco


Gli istinti profondi dell’economia tedesca spingono per il no all’embargo totale di gas russo. Ragioni storiche e geopolitiche si sommano a valutazioni oggettive e interessi materiali, in un insieme in cui anche la Bundesbank fa politica.


L’Europa deciderà per “la madre di tutte le sanzioni”, ossia il blocco totale delle importazioni di energia dalla Russia, come arma contro l’invasione dell’Ucraina? Le resistenze sono forti, soprattutto da parte della Germania, dove il dibattito politico interno si fa di giorno in giorno più acceso e coinvolge decenni di storia tedesca, andando dallo scandalo della posizione dell’ex-cancelliere Schroeder alla rilettura critica di tutta la passata politica merkeliana fino alle accuse di passività all’attuale capo del governo Olaf Scholz.
Senza dubbio la Germania è il Paese dell’Ue maggiormente dipendente dal Cremlino dal punto di vista energetico, per via delle decisioni prese negli ultimi venticinque anni. Il peso (economico e politico) di Berlino all’interno dell’Unione è determinante per ogni decisione comune, anche se la rielezione di Macron in Francia, che rafforza il protagonismo politico di Parigi, e l’attivismo dell’Italia nella diversificazione delle fonti di approvvigionamento possono condizionare, tra gli altri fattori, la politica tedesca e spingerla verso un’assunzione di responsabilità in senso più coraggiosamente anti-Putin. Sarebbe sbagliato tuttavia, per comprendere le ragioni profonde delle esitazioni che agitano la cancelleria di Berlino, concentrare l’attenzione esclusivamente sui personaggi della politica e soprattutto interpretarne le decisioni come puramente volitive e libere dai condizionamenti profondi della società e dell’establishment tedeschi.
Ma andiamo con ordine. La questione del possibile embargo totale nei confronti (soprattutto) del gas importato dalla Russia è ampiamente discussa su tutti i media. Non sempre tuttavia vengono riportati gli elementi oggettivi, dai quali dipendono in definitiva gli impatti economici e dunque strategici. Vediamo i dati, prendendo in considerazione le statistiche ufficiali disponibili sul portale di Eurostat[1]. I dati aggregati definitivi relativi al 2020, indicativi anche per il 2021, ci dicono che l’Unione europea nel suo complesso importa più della metà del proprio fabbisogno energetico, esattamente il 57,5%. Tutti i paesi membri sono importatori netti di energia: tra questi, Germania, Italia, Francia e Spagna sono i maggiori importatori in termini assoluti (altri stati più piccoli lo sono in relazione alla popolazione).
La Russia è il principale fornitore per l’Europa sia di gas naturale (38,2% a segnare un aumento di quasi il 10% dal 2010) che di petrolio greggio (25,7% in diminuzione rispetto ai quasi dieci punti percentuali in più del 2010) e carbon fossile (49,1% in leggera ma costante diminuzione nell’ultimo decennio). In termini assoluti, è noto come il gas naturale sia, tra le tre fonti menzionate sopra, il più importante. Per quanto riguarda in particolare la Germania il gas russo rappresenta circa il 55% delle importazioni totali tedesche di gas: essendo la produzione nazionale quasi nulla, l’import dalla Russia si traduce quasi esattamente nella metà di tutto il gas consumato in Germania.
In generale, la dipendenza dell’Ue dalle importazioni non è cambiata di molto negli ultimi dieci anni, semmai sono variate le ripartizioni tra le varie fonti. Quello che è evidente dai dati è un incremento piuttosto considerevole nella produzione interna di energia rinnovabile, conseguenza delle politiche di riduzione delle emissioni nocive per l’ambiente oltre che di processi di riconversione industriale. Da questo punto di vista, un’importanza fondamentale dovrebbe assumere l’European Green Deal[2], nel senso che la riconversione verde dell’economia europea oltre a mantenere il duplice significato originale di contributo alla conservazione del pianeta e di acquisizione di un vantaggio competitivo nelle nuove tecnologie, avrebbe anche una fortissima valenza strategica in termini di autonomia e sicurezza. Questo, naturalmente, in termini di effetti nel medio/lungo periodo, sarebbe tuttavia autolesionista abbandonare questa strada nell’emergenza contingente. Nel breve termine, invece, la ricerca di fonti di approvvigionamento alternative appare l’unica soluzione. Comunque, anche in questo caso, azioni coordinate a livello europeo, frutto magari di un’unione energetica e di politiche energetiche comuni, sarebbero più razionali ed economicamente convenienti che non le iniziative pure tempestive e pragmatiche ma nazionali che alcuni paesi (Italia in testa) stanno portando avanti con sollecitudine.
Tornando alla Germania, la sua dipendenza dalla Russia deriva da una serie di fattori che hanno origine da oggettive situazioni geografiche o vincoli logistici, ma anche da logiche puramente economico-commerciali e non ultimo da valutazioni geopolitiche, ossia principalmente dall’intento di mantenere buoni rapporti con la Russia in un clima di mantenimento della sicurezza nei rapporti Est-Ovest (dalla Ostpolitik di Brandt in poi). Da qui il ruolo peculiare (primario) di Berlino nei rapporti con le importazioni energetiche dalla Russia e indirettamente la dipendenza/fragilità dell’intera Ue[3]: il gasdotto North Stream è il principale asse logistico di fornitura energetica d’Europa e raggiunge la Germania, per poi diramarsi verso sud e ovest, direttamente attraverso il Mar Baltico, by-passando i paesi baltici e la Polonia e soltanto la guerra in Ucraina ha per il momento portato la Germania a decidere di sospendere il processo di certificazione del North Stream 2, raddoppio del primo fortemente voluto da Mosca e Berlino e già oggetto di critiche e pressioni contrarie, soprattutto da parte USA e dopo l’invasione russa della Crimea del 2014. Ora che l’impensabile è avvenuto, con la guerra a poche centinaia di chilometri da Berlino, tedeschi ed europei subiscono un brusco risveglio. Ma se il riflesso di aumentare le spese militari è quasi automatico, tanto da far superare il tabù post-bellico del riarmo, non altrettanto facile è tagliare il cordone ombelicale che lega affari e interessi tedeschi all’Orso russo.
Non a caso, il 22 aprile la Bundesbank ha reso pubbliche[4] le proprie allarmanti stime sugli effetti che avrebbe sull’economia tedesca il bando totale a gas, petrolio e carbone importati dalla Russia: un costo di 180 miliardi di euro, ossia una perdita di 5 punti di PIL. Secondo la Banca centrale tedesca, se l’Europa decidesse di sanzionare Mosca con un embargo totale sull’import energetico, la Germania subirebbe una vera e propria recessione, con una contrazione dell’economia del 2% e un’inflazione che salirebbe all’incirca al 9% quest’anno e di ulteriori due punti nel 2023. Sarebbe stagflazione, l’incubo di ogni economia.
Come detto, la Germania è il Paese dell’Ue maggiormente dipendente dal Cremlino dal punto di vista energetico. Il fatto, però, è che le stime della Bundesbank sembrano non corrispondere a quelle, pure variabili, della maggior parte degli altri analisti, inclusi molti economisti tedeschi: citeremo soltanto lo studio congiunto delle università di Bonn e Colonia del 7 marzo scorso[5] e quello del DIW Berlin (Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung – Istituto tedesco per la ricerca economica) del 13 aprile[6], che valutano l’impatto economico di un embargo sull’energia decisamente gestibile. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale[7], pur confermando l’evidenza che la perdita di crescita in termini di PIL sarà per la Germania superiore alla media Ue (inevitabile, essendo l’economia più grande e maggiormente coinvolta nei rapporti commerciali con la Russia), non arriva alle catastrofiche cifre della Banca centrale.
Se colleghiamo le previsioni della Bundesbank con le forti e allarmistiche (nonché inattese) recenti dichiarazioni congiunte di rappresentanti delle imprese e sindacali[8], che preconizzano perdite di produzione, chiusure di attività imprenditoriali, deindustrializzazione, appare chiaramente in atto una strategia di forte pressione sui decisori politici da parte dell’intero mondo produttivo (e finanziario) tedesco.
Dietro l’apparente asetticità dei propri bollettini mensili, dunque, anche i rappresentanti dell’autorità monetaria sembrano voler mandare un messaggio al governo: difendere i principi va bene, ma sono gli affari a costituire l’ossatura della potenza (economica dunque politica) tedesca. Non è del resto la prima volta che la Bundesbank fa politica. Se e quanto la sua voce condizionerà effettivamente il governo di Berlino si vedrà. Le premesse ci sono. Se sarà così, le possibilità di una decisione condivisa a livello di Unione europea saranno compromesse anche a causa di queste forti  spinte e tensioni esistenti nella “pancia” del tessuto economico germanico, fonte ed essenza dell’egemonia continentale tedesca.


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note

[1] https://ec.europa.eu/eurostat/web/energy/data/database
[2] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en
[3] Nicola Pedde, Chiudere il gas non conviene a nessuno, Limes 2/2022.
[4] Deutsche Bundesbank, Monatsbericht April 2022, (Bollettino mensile di aprile 2022, sintesi in inglese disponibile sul sito della Bundesbank: https://www.bundesbank.de/en/tasks/topics/war-against-ukraine-energy-embargo-could-significantly-weaken-german-economy-889696).
[5] What if? The economic effects for Germany of a stop of energy imports from Russia (disponibile su www.econtribute.de)
[6] Energy supply security in Germany can be guaranteed even without natural gas from Russia (disponibile su www.diw.de)
[7] IMF, Regional Economic Outlook – Europe, April 2022 (disponibile su www.imf.org)
[8] German employers and unions unite to oppose EU Russian gas boycott, Euronews, 19/04/2022


Foto copertina: La dipendenza energetica tedesca