All’interno della storia repubblicana italiana giocò un ruolo di rilevante importanza la violenta parentesi “di piombo” degli anni Settanta, uno tra i periodi più bui dell’Italia del Dopoguerra. Tra le numerose sigle protagoniste della politica fatta con le armi figurarono le Brigate Rosse, la più importante organizzazione comunista che praticò la lotta armata in uno dei Paesi più autorevoli dell’Occidente democratico. Si trattò di semplici terroristi o di un gruppo di insorti di un Fronte di liberazione? Tra le risposte possibili, la giurisprudenza internazionale offre un punto di analisi illuminante.
Il quadro di riferimento
Durante una lezione di diritto internazionale alla facoltà di Scienze politiche dell’università la “Sapienza” di Roma, il professore iniziò il corso sostenendo la faticosa salita contro l’attuazione e il rispetto dei suoi dettami che la disciplina giuridica della comunità internazionale incontra ormai quotidianamente. Questo, in sostanza, per due motivi centrali: non esiste un esecutivo mondiale eletto o eleggibile che goda di consenso popolare e che in qualche modo riesca a esercitare, al pari di un governo di uno Stato, la sua forza istituzionale; e, in seconda analisi, l’organo deputato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Consiglio di sicurezza, ha al suo interno, sia storicamente che strutturalmente, importanti disparità che alimentano costantemente il fronte dubbioso nei riguardi della sua efficacia e imparzialità.
Di certo, la giurisprudenza internazionale è uno dei migliori strumenti per lo studio di fenomeni globali. Dal terrorismo alla disciplina (sic!) delle guerre, dalla risoluzione delle controversie tra Stati alla regolamentazione dei rapporti bilaterali e multilaterali tra di essi. Insomma, oltre alla sua principale mansione, squisitamente giurisprudenziale, il diritto internazionale si offre come lente di ingrandimento di studio di casi d’interesse.
Il terrorismo nostrano
Il terrorismo, noi italiani, lo abbiamo avuto in casa; autoctono. Già con la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Bel Paese distrutto scoprì alcune forme ed esperienze di guerriglia terroristica di diverse matrici. Si ricordano a tal proposito gli uomini della Volante rossa, la formazione d’ispirazione comunista che in nome di una “Resistenza tradita” – tematica che verrà poi ripresa durante gli Anni di piombo – tentò di rimuovere l’impianto democratico-borghese che andava prefigurandosi nel Paese durante i lavori della Costituente; e le numerose organizzazioni neofasciste che, maturate in seno alla sconfitta del delirio totalitarista, esplosero in Italia già all’inizio degli anni Sessanta – si ricorda la struttura denominata “Rosa dei venti”, vicina ad ambienti militari e a espressioni rigurgitanti del passato mussoliniano.
Dalle fazioni embrionali si possono tracciare due linee di continuità importanti nel tentativo di comprendere la violenza politica italiana. Un primo campo d’analisi viene offerto dal fenomeno partigiano diviso in almeno due anime principali: in una, riconoscibile come “bianca”, in cui nella lotta al Nazifascismo confluirono principalmente monarchici, liberali e cattolici, si consolidarono i rapporti tra chi nell’Occidente e nella potenza anglo-americana aveva riposto il sogno di un’Italia liberale e democratica post-fascista; dall’altra parte, l’area più celebre, riconoscibile come “rossa”, la fiducia e la prospettiva futura avevano considerato di riporle nel potere comunista e nella stabilizzazione di una democrazia popolare “alla sovietica”. Entrambe, e unite, contro i tedeschi, ma entrambe disunite sulle sorti future politiche e istituzionali del Paese.
Dall’area comunista si può, in parte, individuare una forte consequenzialità armata e una rilevante condizione di stagnazione della violenza politica che esploderà nella sua forma più radicale durante gli anni Settanta. L’anima più rivoluzionaria, germinata già in seno alle attività della Volante Rossa subito dopo il conflitto e in alcuni movimenti sessantottini, troverà espressione in parte nelle Brigate rosse e nei vari movimenti e organizzazioni extraparlamentari della sinistra radicale – Prima linea, Nuclei armati proletari, Proletari armati per il comunismo e altri – , che nasceranno anche da una cesura netta e traumatica con il PCI. Di contro, all’interno di alcune faglie rimaste irrisolte dal movimento partigiano – si ricorda in particolar modo il riadattamento alla vita pubblica e civile di numerosi uomini appartenenti allo zoccolo duro mussoliniano come Junio Valerio Borghese e Giorgio Almirante, fascisti fedeli alla Repubblica Sociale Italiana che trovarono nell’Italia democratica il “perdono” politico – muoveranno i primi passi le rigurgitanti espressioni della dittatura del Duce che troveranno voce principalmente nei Nuclei armati rivoluzionari, in Avanguardia nazionale e Ordine nuovo.
Le Brigate rosse hanno rappresentato per l’Italia la più importante organizzazione di lotta armata mai esistita negli anni della Repubblica. Avvolte da sostanziose fumosità diffuse, i brigatisti come Tonino Paroli, Mario Moretti e altri in più occasioni hanno rimarcato la loro estraneità a pratiche e comportamenti tipici del terrorismo. Il loro impianto teorico, pratico e ideologico si articolava su una più “nobile” missione dell’organizzazione rivolta principalmente alla guerra – guerriglia – allo Stato sulla base di esperienze combattenti derivanti da diversi scenari: dalla Cina Maoista alla Cuba di Fidel Castro, passando per i Tupamaros dell’Uruguay.
Il Gruppo di studio Resistenze Metropolitane ha curato il volume “L’Ape e il comunista”, una raccolta completa degli scritti teorici dei militanti brigatisti, pubblicato dalla casa editrice PGRECO Edizioni nel 2013. Il dato che emerge dallo scritto è chiaro: le Brigate rosse, in quanto rivoluzionari di mestiere, promuovevano la formazione del Partito Comunista Combattente, che, attraverso la lotta armata, avrebbe dovuto conquistare il potere nel Paese. Un obiettivo garantito non solo da un’attività militare e guerrigliera, ma coadiuvato in forza dai cosiddetti organismi di massa rivoluzionari – popolo che sposa la causa – componente necessaria per l’attuazione del progetto brigatista. In questo senso, le Br si allontanarono, in parte, dall’assunto leninista per cui la rivoluzione si componeva di una fase preparatoria di agitazione politica pacifica seguita, una volta maturate le condizioni, dalla vera e propria guerra insurrezionale – la spallata finale –.
I brigatisti il passaggio pacifico lo schivarono dal principio; a tal proposito, le parole di Renato Curcio, uno dei fondatori dell’organizzazione, in un discorso tenuto a Pecorile nel 1970 – anno e luogo di fondazione delle Brigate – appaiono chiarificatrici: «questa avanguardia deve saper unire la “politica” con la “guerra” […] Occorre […] preparare la guerra civile di lunga durata in cui il politico è, da subito, strettamente unito al militare».
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Ma come considerare allora le Brigate rosse non nel progetto di Partito armato ma nell’essenza dei loro atti volti a costruire il processo per la dittatura del proletariato? Una possibile, ma sicuramente incompleta risposta – data la complessità del caso in analisi – , viene fornita dal diritto internazionale; in particolare si prendono a riferimento le quattro Convenzioni di Ginevra (1949) e i due Protocolli addizionali (1977) del più ampio diritto internazionale umanitario.
Nell’ambito dell’ordinamento mondiale un partito insurrezionale, per essere considerato tale e ottenere un limitato riconoscimento giuridico internazionale, è un gruppo che lotta militarmente contro il Governo legittimo, che amministra e occupa effettivamente una parte di territorio e si articola attraverso una gestione costante da parte di un’autorità politica e un’autorità militare. Inoltre, gli insorti occupanti di una fetta di territorio e con le suddette caratteristiche tendono a raggiungere condizioni accordevoli, alternative alla guerra – possono essere di pace momentanea o di altro genere –, con lo Stato legittimo, proprio per garantirsi un riconoscimento giuridico dalla parte avversa, e, in alcuni casi, da una parte della comunità internazionale.
Storicamente la giurisprudenza ha fornito chiari esempi di insorti – talvolta trasformatisi in movimenti di liberazione nazionale – riconosciuti come tali; il Fronte di liberazione dell’Algeria, il Consiglio nazionale di transizione libico, il Fronte Farabundo Martì per la liberazione di El Salvador, il Fronte di liberazione nazionale vietnamita, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
La mutazione delle BR in un partito di insorti, secondo dettami giuridici, non ci fu, al di là delle considerazioni personali di ex appartenenti e militanti. Potrebbe definirsi, in un tentativo ultimo di perimetrazione disciplinare, come un’organizzazione con aspirazioni politico-militari tendenti all’insurrezione popolare, non completamente soddisfatte e realizzate. E ciò lo si evince dalla perdita, e dalla non ricerca, in tal terreno giuridico di elementi fondamentali al riconoscimento come insorti, che prevede non solo atti di guerriglia permanente ma un effettivo controllo di una parte di territorio.
Un tipo di controllo che era al centro dei documenti teorici dell’organizzazione ma che restò solo una mera aspirazione dai lineamenti oscuri.
Foto copertina: Nel maggio 1974 vennero diffuse dagli inquirenti le foto di alcuni dei presunti capi delle Brigate Rosse: da sinistra, Piero Morlacchi, Mario Moretti, Renato Curcio e Alfredo Bonavita. Wikipedia